1° maggio: dalle povertà comuni ai beni possibili

1° maggio: dalle povertà comuni ai beni possibili

Il Primo Maggio di quest’anno non è una pausa lavorativa o l’occasione per una gita fuoriporta, ma torna ad essere una giornata che ci impone una seria riflessione sul lavoro. I negozi chiusi da settimane, le attività economiche che stanno riprendendo lentamente, un’agricoltura funestata dalla siccità ci hanno trascinato in una situazione di crisi per la quale tutti vogliamo trovare una via d’uscita. I Vescovi italiani nel Messaggio per questa giornata, intitolato Il lavoro in un’economia sostenibile lo hanno ribadito: L’emergenza sanitaria porta con sé una nuova emergenza economica. Nulla sarà come prima per le famiglie che hanno subito perdite umane. Nulla sarà come prima per chi è stremato dai sacrifici in quanto operatore sanitario. Nulla sarà come prima anche per il mondo del lavoro, che ha prima rallentato e poi ha visto fermarsi la propria attività. Già si contano danni importanti, soprattutto per gli imprenditori che in questi anni hanno investito per creare lavoro e si trovano ora sulle spalle ingenti debiti e grandi punti interrogativi circa il futuro della loro azienda. Nulla sarà come prima per i settori che sono andati in sofferenza e vivono l’incertezza del domani».

La nostra già fragile economia del Sud è divenuta ancora più debole, e le serve un salto di qualità, che impari qualcosa anche da questa pandemia. Il Covid–19 ci ha insegnato varie cose.

Ci ha ricordato che siamo un territorio poverissimo di lavoro, in cui gli elenchi di coloro che usufruiscono di aiuti alimentari e sussidi, sono molto lunghi. Ad alcuni mancano opportunità, come un tablet per far seguire le lezioni ai propri figli o spazi abitativi adeguati. Alcuni sono caduti nelle grinfie della malavita e si accontentano di vivere di espedienti.

La pandemia ha poi evidenziato anche quella che i Vescovi hanno chiamato la «schizofrenia del nostro atteggiamento verso i nostri fratelli migranti»: li rifiutiamo, ma è oggi più che mai comodo impiegarli con salari minimi, per assicurarsi guadagni più lauti. «Sono sfruttati – si legge nel Messaggio – come forma quasi unica di manovalanza, a condizioni di lavoro non dignitose in molte aree del Paese. Dobbiamo saper trasformare le reti di protezione contro la povertà – essenziali in un mondo dove creazione e distruzione di posti di lavoro sono sempre più rapidi e frequenti – in strumenti che non tolgano dignità e desiderio di contribuire con il proprio sforzo al benessere del Paese». Sono sopravvissuti alla pandemia, chiusi nel perenne lockdown dei loro ghetti, che attendono di riprendere una delle attività più diffuse tra le loro donne, la prostituzione. Delle speranze di regolarizzazione che il Governo fa loro intravedere sono forse ignari. Ma gli immigrati ci sono, e non possiamo far ripartire la nostra economia sul loro sfruttamento.

Il nostro contesto «glocale» tocca il cambiamento climatico: la siccità di quest’anno ci dice che lo scompenso del clima riguarda anche la nostra area geografica e non si può più attendere per progettare un’economia sostenibile. Quanto si sta investendo nell’adattarsi a nuove colture che resistano all’impatto di questi mutamenti? Quanto si sta facendo per stroncare uno sfruttamento delle risorse non rinnovabili?

Non dimentichiamo la malavita: ha continuato i suoi affari e troverà manovalanza laddove cultura, Stato, lavoro e giustizia sociale arretreranno. Bisognerà precederla prima che ghermisca altre persone di tutte le età, soprattutto i giovani.