1° maggio. Mons. Castellucci: la priorità sia creare nuovo lavoro

1° maggio. Mons. Castellucci: la priorità sia creare nuovo lavoro

Il 1° maggio in Cattedrale a Carpi monsignor Erio Castellucci ha presieduto la messa per il mondo del lavoro promossa quest’anno dagli uffici per la pastorale sociale e del lavoro delle diocesi di Carpi e di Modena e dalle ACLI provinciali, a porte chiuse e in diretta su TVQUI. Nel rito introduttivo sono stati ricordati i passaggi epocali che hanno caratterizzato l’evoluzione del sistema produttivo locale segno di intraprendenza e di capacità di cogliere le sfide dei vari periodi storici e delle crisi che hanno attraversato anche i tempi recenti. Riportiamo ampi stralci dell’omelia di monsignor Castellucci (il testo integrale è disponibile su https://diocesicarpi.it/memoria-di-san-giuseppelavoratore/).

Il lavoro senza la festa rischia di ridurre l’uomo a rotella di un ingranaggio fatto solo di bisogni biologici e del loro soddisfacimento; la festa senza il lavoro sfuma in un ozio fine a se stesso, che priva la società e la persona delle energie che la costruiscono e le danno ordine. Abbiamo vissuto in questi mesi una situazione inedita: la maggior parte dei lavoratori si trova costretta ad una specie di sabato prolungato, una inattività forzata e indesiderata. Questo periodo non si può certo chiamare “festa”, perché è segnato da dolore, tensione, disoccupazione. È vero che alcune attività si sono consolidate e addirittura intensificate; è vero che alcune aziende hanno avviato o realizzato un processo di riconversione, che permetterà loro anche nella fase intermedia, in cui stiamo entrando, non solo di resistere, ma forse anche di crescere. È vero, poi, che alcune professioni si sono rivelate particolarmente preziose in questa pandemia: rendiamo omaggio alla dedizione e alla testimonianza di tanti medici, infermieri, operatori sanitari, volontari e Protezione civile; ma pensiamo anche al lavoro delle istituzioni e degli amministratori, alle forze dell’ordine, agli addetti alle banche e ai servizi postali, ai docenti, agli psicologi, ai ministri delle comunità religiose, ai sindacalisti e agli operatori della comunicazione e del digitale; e ricordiamo infine tutti quei lavoratori che svolgono

mestieri umili, dimostratisi invece di particolare importanza: come le assistenti impegnate nelle famiglie e nelle strutture, i fornitori, i corrieri, gli operatori ecologici, alcuni commercianti, il personale delle pulizie. Tutto questo è vero e merita enorme riconoscenza. Resta però drammatica la situazione di molti che hanno perso o perderanno il lavoro: e si parla di milioni di persone La disoccupazione, come sappiamo bene, trascina con sé tante fragilità: povertà materiale, intere famiglie in crisi, danni psicologici, vizi e dipendenze, demotivazione sociale, senso di frustrazione. Alle parole d’ordine degli ultimi decenni – parole che hanno guidato la vita sociale nazionale almeno fino alla crisi economico-finanziaria scoppiata dodici anni fa – come “competitività, produzione, profitto, crescita”, si dovranno affiancare parole che, pur entrate nel lessico culturale e giuridico, sembravano assodate e si pongono invece come traguardi: “solidarietà, sussidiarietà, dignità della persona e della famiglia”. Anzi, proprio queste parole dovranno prendere il timone della barca, per evitare che la tempesta la rovesci. (…) La dottrina sociale della Chiesa, in fondo, non fa che riproporre da 130 anni questa prospettiva: concorrenza e solidarietà insieme, proprietà privata dei beni e loro destinazione pubblica insieme, condivisione dei mezzi di produzione e dei profitti. Sappiamo tutti quale massa di esperienze sia nata da questa ispirazione: dalla cooperazione all’imprenditoria sociale e all’economia solidale. Sulla base di queste esperienze possiamo sperare che nei prossimi mesi e anni la crisi si affronterà non con l’ottica di una semplice ripartizione delle risorse esistenti – che da sola si tradurrebbe in una elemosina sociale, utile nell’immediato ma dannosa sui tempi lunghi – bensì con l’ottica della “creazione” del lavoro, che è l’incentivo sociale più efficace e rispettoso della dignità delle persone. Ciò significa, come si sta prospettando in queste settimane, innovazione, riorganizzazione degli orari e dei ritmi, diffusione delle nuove tecnologie: tutto nel rispetto del diritto alla salute. Preparando queste piccole riflessioni, mi risuonavano due frasi che oggi, primo maggio, tutti noi abbiamo sentito. La prima è nel Vangelo di oggi e la seconda nella Costituzione. “Non è costui il figlio del falegname?”, si chiedono i concittadini di Gesù ascoltandolo: “da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi?”. (…) Con la sua stessa esperienza, Gesù scombina la divisione netta tra professioni nobili e lavori servili. Anzi, la capacità di parlare dritto ai cuori e di porre concreti gesti di aiuto l’ha senz’altro maturata nella concretezza dell’attività manuale e domestica. Concretezza che ritroviamo nelle sue parabole, così incisive e provocatorie anche perché intrise di riferimenti ai mestieri del tempo: pastori, mercanti, pescatori, banchieri, agricoltori, viticoltori e servi. Gesù crea quel ponte solido tra professioni e mestieri, lavori intellettuali e lavori manuali, che sembra oggi ancora più attuale, se pensiamo a quale creatività potrà richiedere la crisi nella quale siamo entrati. La seconda frase è l’inizio stesso della nostra Carta costituzionale: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”; dove “lavoro” è inteso nel senso più ampio possibile, raccogliendo tutte le attività che portano beneficio materiale e spirituale alla società. I padri costituenti (…) Scelgono invece di fondare l’Italia sul lavoro. Ed è stata una scelta profetica, di cui ora avvertiamo, dolorosamente, l’importanza. Fondare lo Stato sul lavoro significa ritenerlo costituito non da qualche ideale superiore, per quanto elevato – l’Italia usciva da una dittatura che si riteneva fondata sui grandi ideali della Roma antica – ma dall’apporto di tutti i cittadini, da questa rete di base che lo alimenta e lo sostiene. Il lavoro è il termometro più sensibile del grado di dignità, rispetto e giustizia di una convivenza civile; è il volano che sostiene la persona, la famiglia, la società e lo Stato; è la misura della solidarietà e dell’equità, è lo strumento che realizza il bene comune. Il “figlio del falegname” assista tutti nell’opera che attende il nostro Paese, l’Europa e gran parte del mondo: ricostruire la rete sociale attraverso la riorganizzazione e il rilancio del lavoro.