“C’era una volta…”, i tempi nella pandemia

“C’era una volta…”, i tempi nella pandemia

Il tempo della presenza

“C’era una volta …” –  sembra lontano anche solo due mesi fa – il tempo in cui l’accompagnare e/o il consolare evangelico si esprimeva attraverso gesti di cura e di prossimità che erano scontati e ovvi, forse solo da rispolverare con qualche nuova lettura o da risignificare perché l’accostarsi al “mistero” che la persona umana è non divenisse un’abitudine. Ci si incontrava e si parlava guardando il volto dell’altro per accogliere parole e sguardi, in una presenza che aveva i tratti della realtà ( le video chiamate erano riservate a chi si trovava all’altro capo del mondo … non certo a chi era vicino). Così era per chi, in una dedizione abituale al popolo di Dio, si recava negli ospedali per esprimere vicinanza e condivisione o nelle case di riposo per un contatto visivo e fisico che consolava e incoraggiava. Ascoltare persone che avevano bisogno di raccontarsi passava attraverso una vicinanza che si esprimeva con parole ma anche con strette di mano, carezze, abbracci. Il tutto in uno spazio a volte intimo di una casa, o riservato di un ospedale, o in spazi altri. Semplicemente … accanto. Era il tempo di una presenza, che conosceva anche una consolazione che ci impegnava tutti – nella diversità di ruoli e competenze – nella ricerca di una “qualità maggiore” del prenderci cura di quanti erano nella sofferenza fisica e/o psicologica, morale, spirituale. Avevamo capito che la fragilità umana ci apparteneva ed era una dimensione da accostare con rispetto e dedizione. Il Vangelo ce ne insegnava le modalità. Nelle nostre prassi si trattava di rilanciare un modo di accompagnare il “mistero dell’altro” che nell’ascolto e nella “situazione di presenza, di sicurezza, di risposta” (F. Imoda, Sviluppo umano psicologia e mistero) aveva i suoi tratti più preziosi e vitali.

Il tempo dell’assenza

“ All’improvviso …” – sembra una storia ma una favola non è – ci siamo ritrovati dentro un dramma e una sofferenza che ci supera e che addirittura ci limita nei gesti di cura e di accompagnamento a cui eravamo abituati. Ci sembra impedisca – per motivi di sicurezza – di farci vicino al dolore delle persone nelle modalità che conoscevamo, espressione di un servizio all’altro che mai come ora ha particolare significato. Ci siamo sentiti in qualche modo anche noi “in guerra”, al fronte, a combattere una battaglia rispetto alla quale come tutti eravamo impreparati. Qualcuno di noi faceva parte dei feriti, qualcuno dei soccorritori. Tutti, comunque … in guerra. Grazie alla riflessione e alla compagnia di sorelle e fratelli che condividevano la stessa esperienza di disorientamento (medici, infermieri, sacerdoti, religiosi/e che per vocazione si prendono cura di altri e fanno del servizio alla persona il motivo della loro esistenza) ci siamo resi conto che questo tempo di prova poneva anche noi in uno stato … di cura. Una condizione esistenziale che bene descrive G. Dotti: “ la cura abbraccia – nonostante la distanza fisica che ci è attualmente richiesta – ogni aspetto della nostra esistenza, in questo tempo indeterminato della pandemia così come nel “dopo” che, proprio grazie alla cura, può già iniziare ora, anzi, è già iniziato.

Ora, sia la guerra che la cura hanno entrambe bisogno di alcune doti: forza (altra cosa dalla violenza), perspicacia, coraggio, risolutezza, tenacia anche … Poi però si nutrono di alimenti ben diversi. La guerra necessita di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di spie, inganni e menzogne, di spietatezza e denaro … La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza …

Per questo tutti noi possiamo essere artefici essenziali di questo aver cura dell’altro, del pianeta e di noi stessi con loro. Tutti,  […]ciascuno per le sue capacità, competenze, principi ispiratori, forze fisiche e d’animo” ( Siamo in cura non in guerra, Monastero di Bose 29 marzo 2020).

Divenire  artefici di cura e di vicinanza ci ha fatto sentire parte di quanti stavano cercando modalità nuove e diverse dalle precedenti ( o quasi scadute …) di farsi prossimità e presenza nonostante una “obbligata” … assenza.  Tutto ciò senza qualche domanda.

Come fare a continuare ad accompagnare il “mistero” umano in un tempo di assenza di gesti ormai conosciuti? Come attivarsi con creatività utilizzando nuove modalità secondo le indicazioni di Papa Francesco che, entrando delicatamente nelle nostre case con un video messaggio ci esortava: “Siamo isolati ma aiutiamoci con la creatività dell’amore”?

 Il tempo della trasformazione

Le parole del Papa hanno avuto una forza particolare e hanno fatto scattare la molla della creatività in molte persone che a vario titolo, competenza e vocazione hanno cercato modi nuovi e/o conosciuti ma tralasciati, di rendersi vicini … tenendo la distanza di sicurezza. E così, in uno spazio forzato di assenza, la vicinanza e l’ascolto hanno preso forme diverse. E hanno dovuto porsi difronte alla scelta rinnovata di una prossimità sostenuta da una Speranza e con una domanda nel cuore: “ Come fare a dare vita ad una trasformazione?”

La voce

Una via preferenziale è stata quella della telefonata o della video chiamata. Sentire la voce o vedere il viso di una persona cara hanno reso concreto e reale un interessamento, un desiderio di condivisione e hanno così aiutato a continuare il farsi prossimi, mantenendo una relazione con le persone già conosciute. E così anche solo la voce (che a differenza del messaggio veicola calore, emozioni, partecipazione e calore umano) è diventata il canale attraverso il quale ricreare una situazione preziosa di presenza:

  • per persone conosciute o che il cammino della vita ci ha fatto il dono di incontrare
  • per i parenti di qualcuno che il coronavirus aveva allontanato o addirittura portato via dalla loro esistenza consapevoli che “ Stare vicino e non lasciare sole le persone che hanno subito una perdita non può essere delegato agli specialisti, ma tocca in diversi modi tutta la comunità” (E. Parolari, Accompagnare il lutto, un compito corale)
  • per chi disorientato desiderava condividere l’agitazione e la preoccupazione delle molte limitazioni soprattutto di contatto con i propri cari
  • per i medici, gli infermieri o il personale sanitario che non ha smesso di dare e che ha altrettanto bisogno di ricevere
  • per chi nelle nostre case si è trovato a fronteggiare situazioni difficili o chi nelle nostre comunità ha sofferto in modi differenti e ancora sta cercando vie di serenità.

La preghiera

La via invisibile della preghiera – pur nelle diverse forme – continua a sostenere la fiducia che Dio non abbandona il suo popolo e a dare forza a noi e alle persone di cui gli parliamo. E il sorgere di nuove e creative modalità di pregare, nella semplicità di mezzi e di spazi domestici, lo sta dimostrando. È un grido che si dirige verso Dio. Ma per fortuna non deve fare molta strada perché, senza moduli lasciapassare, arriva diretto a destinazione e il Signore  lo sta già ascoltando.

Parole e letture

Un articolo letto che ci ha fatto bene e parole dette o scritte che non sono distruttive o che generano ansia (data anche dai numerosi telegiornale ascoltati) sono diventate e possono continuare a veicolare consolazione. “ Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”, così si esprimeva Etty Hillesum di fronte al molto dolore e al senso di impotenza nell’alleviarlo. Poter condividere parole scritte tramite i mezzi che conosciamo  (mail, lettere, messaggi, link …) ci pone davanti a un bivio: alimentare la paura, con le sue chiusure paralizzanti e critiche distruttive, o contagiare di bene questo tempo delicato e solitario con parole rassicuranti che diano forza, coraggio, ricerca di un senso. Parole dette o scritte che sappiano risollevare e curare paure che aumentano e si autoalimentano soprattutto quando si è soli. Una buona lettura inviata, un articolo che genera vita. Ecco un altro modo per accompagnare a distanza. “Le parole buone curano. A volte riescono perfino a guarire” ( S. Guarinelli, Statistiche e parole che curano ). Forse è per questo che alcuni Santi hanno scritto così tanto, e senza i mezzi veloci di oggi … nella loro delicata umanità l’avevano già capito a loro tempo.

L’umanità

Da persone impegnate ad alleviare il dolore e la sofferenza altrui ci siamo trovati anche noi malati … di umanità, desiderosi di trovare modi per condividere, ascoltare, amare e far arrivare l’Amore.  Si comprende quanto sia vero che “quello che stiamo vivendo in questi giorni è un’occasione per fare il punto sulla nostra maturazione in umanità. Ciò che siamo costretti a vivere in questi giorni ci ricorda il dovere di accettare il nostro limite fino ad onorare quelli che sono i nostri limiti e portarli insieme”( Fr. M. Davide, Siamo tutti malati … di umanità!). Non da soli certo. Non soltanto cioè contando sulle nostre forze. Ancora una volta possiamo fare nostro l’invito che rivolgeva a se stessa Etty Hillesum: “Ma sopportiamolo con grazia”. La Grazia, così come la Speranza, per qualcuno ha un volto e un cuore preciso. E anche un nome. Anche questa situazione ci ha insegnato il rispetto. E i tempi più lunghi “esteriori” ci hanno parlato di quelli “interiori”.

… per una ripartenza a coinvolgersi ancora

Quanto la creatività ci suggerisce lo stiamo facendo, mentre ancora molte domande ci accompagnano. Quando potremo riprendere ad andare nelle famiglie a trovare le persone sole o a trovare chi è anziano nelle case di riposo? Quando potremo accedere di nuovo agli ospedali come volontariato o semplicemente per trovare qualcuno? Quando a far visita a persone che vengono a mancare e portare consolazione ai parenti? Quando poter incontrare fisicamente persone che ci chiedono aiuto? Quando alleviare il dolore con i gesti del “contatto”: carezze, abbracci?

Restano domande aperte … domande legate a “luoghi” dove si esercita solitamente il nostro ministero, che tutti ci auguriamo possano presto essere ri frequentati con la dovuta sicurezza.

Una domanda positiva sembra porsi però in modo più evangelico: in attesa della riapertura di questi luoghi è possibile “stare accanto” ancora? Ci sarà dato di comprendere che i luoghi dell’ascolto, del bene, dell’interessamento, della cura, della consolazione prima ancora di essere “luoghi fisici” sono spazi del cuore, desiderio profondo di sentire ancora “l’odore delle pecore” e condividerne le fatiche? Sarà possibile dunque una ripartenza ancora più umana ed evangelica?

Continuiamo a vivere in questo tempo il nostro ministero, ciascuno là dove il Signore ci ha posto, nel desiderio di poter essere e divenire “profeti di un’umanità possibile” dove, anche se non potremo dimenticare ciò che è accaduto, sarà possibile continuare all’insegna di tutto quanto nella sofferenza è maturato. Nel segno di una presenza, assenza, trasformazione che se nel dinamismo dello sviluppo umano indicano situazioni irrinunciabili di crescita, possono continuare anche in tempo di coronavirus a far crescere e sostenere dinamiche di vita nelle fragilità che ciascuno di noi è chiamato a raccogliere, accompagnare e custodire … in Dio.

suor Alessandra Tinti, madre Canossiana, collaboratrice del Centro per l’accompagnamento vocazionale