La gioia del ritrovarci insieme come presbiterio diocesano in questa particolare celebrazione non può farci dimenticare la sofferenza per le prove che le comunità affidate alla nostra cura pastorale hanno dovuto e devono sopportare in questi tempi.
Nel nostro cuore e nella nostra preghiera ci sono tutti: i nostri morti, che abbiamo accompagnati al riposo eterno soltanto con una benedizione tra pochi familiari sgomenti; i malati, in specie quelli che hanno dovuto passare per le terapie intensive; le famiglie, provate dal dolore per la scomparsa dei loro cari o dall’ansia per la loro vita; gli anziani, su cui ha pesato in modo particolare l’isolamento; i fanciulli, i ragazzi e i giovani, privati dei tempi di educazione, formazione, socialità, gioco; gli imprenditori e i lavoratori, minacciati dalla precarietà e dallo spettro di una crisi economica; coloro che hanno responsabilità di governo nella società, chiamati a scelte difficili e, auspichiamo, lungimiranti; i nostri fedeli, a cui per lunghi giorni non abbiamo potuto offrire il sostegno e la gioia dell’incontro eucaristico.
Nella nostra memoria, e con profonda gratitudine, sono presenti però anche i segni di bene, che non sono mancati: il servizio svolto da quanti operano nel sistema sanitario con qualificata professionalità, generosa dedizione, profonda umanità; lo slancio di carità del volontariato impegnato a raggiungere, in forme e destinazioni nuove, vecchi e nuovi poveri; la responsabilità dei cittadini nell’accettare disposizioni che limitavano la loro libertà, accolte in genere con spirito di condivisione per il bene di tutti; le nostre comunità che hanno vissuto questi giorni con spirito di fede, dando vita a forme nuove di vita cristiana nella famiglia e tramite i mezzi di comunicazione; voi, cari preti, costretti a vivere in maniera inedita il vostro ministero e a farvi carico di responsabilità e fatiche pur di assicurare alla vostra gente il servizio della fede, la vicinanza paterna, i legami comunitari.
In queste responsabilità e fatiche si inseriscono anche sollecitazioni e richieste di cui io vi ho caricato e ancora vi sto caricando, in comunione con l’episcopato italiano. Non sempre tutto vi e ci appare comprensibile. A volte potremmo aver nutrito anche valutazioni diverse. Vi ringrazio per come abbiamo mantenuto l’unità del presbiterio e della comunità cristiana in questi passaggi.
Mi preme ribadire che, personalmente, non ho avuto e non ho altro obiettivo che mantenere la nostra Chiesa nella comunione di fede, di carità e, perché no, di disciplina. In questa comunione ci è data la possibilità di vivere il mistero della fedeltà della Chiesa al Vangelo. Vi esorto a continuare in questo spirito e in questa prassi di comunione anche in futuro: è presumibile che i prossimi mesi richiedano ancora continui aggiustamenti e nuovi sacrifici. Ci animi il servizio al Signore nel servizio dei fratelli.
Tutto questo portiamo oggi sull’altare rinnovando la nostra offerta al Signore, in cui al dono di sé che Cristo fa al Padre accostiamo, con gioia e responsabilità, il dono che gli abbiamo fatto della nostra vita. Le promesse sacerdotali, che tra poco rinnoveremo, ci ricorderanno che il nostro impegno è anzitutto di unirci a Cristo e conformarci a lui nel servizio nella Chiesa. Sul legame a Cristo Gesù si fonda il nostro ministero, che si articola poi, come esplicita la successiva promessa, nell’essere strumenti della vita sacramentale della Chiesa, della proclamazione della parola della salvezza, del servizio di amore ai fratelli come loro pastori.
Solo sul fondamento del nostro rapporto con Cristo possono alimentarsi le funzioni in cui, nella comunione, si esprime il nostro ministero in ordine alla vita liturgica, all’annuncio della parola, al servizio della carità. Non siamo funzionari, ma testimoni di un incontro che ci ha cambiato la vita per metterla al servizio dei fratelli come loro pastori.
Lo richiamano anche le letture di questa celebrazione. Nel testo dell’Apocalisse il popolo sacerdotale, al cui servizio è posto il nostro sacerdozio ministeriale, ci è stato rivelato come generato dall’amore e dal sacrificio di Gesù Cristo: «A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen» (Ap 1,5b-6). Questo Gesù, nel vangelo secondo Luca, assume per sé le parole profetiche del libro di Isaia, presentandosi nella sinagoga di Nazaret come colui che viene tra noi con l’annuncio della parola che salva e che cura le ferite dell’uomo liberandolo dalle sue fragilità e schiavitù.
Nel contesto dell’odierna celebrazione la nostra attenzione si rivolge all’affermazione per cui questa missione di annuncio e di opera di salvezza, scaturisce da un invio, da parte dello Spirito di Dio, che si manifesta come una consacrazione sancita dall’unzione. L’olio, che consacrava profeti e re, diventa sul Messia il segno della presenza dello Spirito, nella sua persona e nella sua missione. In questa unzione noi, discepoli di Gesù, riconosciamo anche la nostra identità di consacrati dallo Spirito per essere testimoni e strumenti della salvezza dell’umanità. La luce della Parola che ci è affidata e la forza trasformante dell’amore, che nell’agire dei credenti nella storia rinnova il mondo, hanno bisogno di essere alimentati dal dono dello Spirito che, nei sacramenti, inserisce la nostra esistenza, come quella di Gesù, nel disegno divino di salvezza, nell’«anno di grazia del Signore» (Lc 4,19).
La celebrazione odierna ci conduce a una maggiore consapevolezza della dimensione sacramentale della vita della Chiesa e del nostro sacerdozio. La fede cristiana non è, come si dice oggi, una narrazione o una narrativa del mondo, ma un evento, un fatto che si innesta nella storia e la illumina. Questo fatto è prima l’evento di Cristo e poi l’evento del nostro incontro con Cristo. La fede cristiana non è un’idea, ma una storia, in cui si intrecciano le forme proprie della storia umana, le cose e le parole, che nei sacramenti diventano la materia e la forma, come si esprimeva il vecchio catechismo.
Tutto questo dicono gli oli che oggi benediciamo. Tutto questo dicono il pane e il vino che vengono trasformati nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Per questo a noi cristiani non bastano le parole di una preghiera, ma abbiamo bisogno di segni concreti: l’acqua, l’olio, il pane e vino, i corpi degli sposi, perfino i nostri peccati, materia da redimere. La realtà sacramentale unendo alla fisicità della dimensione materiale della storia il significato che viene rivelato dalla parola, costituisce il ponte tra la realtà storica umana irredenta, che è il campo della salvezza, e quella stessa realtà che diventa vita nuova, trasformata dalla Pasqua di Cristo.
I sacramenti sono questo ponte, senza il quale la Parola annunciata smette di essere una storia, quella di Cristo, che io posso inverare nella mia storia, e rischia di decadere in narrativa, o narrazione che dir si voglia, una qualsiasi ideologia. Noi abbiamo bisogno di un ponte umano tra Gesù e noi e questo ponte ci è dato dai sacramenti. Per questo motivo la Chiesa non può mai rinunciare e mai ha rinunciato alla vita sacramentale, in specie l’Eucaristia. Solo attraverso la presenza dei sacramenti nella vita cristiana, questa vita può diventare a sua volta sacramentale, cioè segno efficace della presenza salvifica di Dio nel mondo. Proprio per salvare il valore della nostra testimonianza di fede abbiamo bisogno che essa scaturisca da una forza che non può essere nostra, ma solo di Dio, dono della sua grazia.
Sono riflessioni, queste, che ci aiutano a comprendere come la nostra esistenza nel sacerdozio ministeriale sia un evento di grazia, per il quale essere sempre grati al Signore e del quale essere testimoni credibili ai fratelli nella santità della nostra vita.
Siamo inoltre condotti a tenere strettamente unite le tre dimensioni della vita pastorale, parola, sacramento e carità, poste a loro volta nell’orizzonte della comunione: solo un’armonica tessitura di queste tre dimensioni può far crescere una Chiesa che sia riflesso autentico del volto di Cristo.
Infine, solo dalla grazia che scaturisce dai sacramenti possiamo trarre la forza perché la parola delle fede diventi storia, esperienza di carità.