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Chioggia. La storia di Stellina: con una figlia disabile ai tempi del Coronavirus

Io amo la mia Stellina, la mia bambina, cinquanta anni fa non esistevano le diagnosi prenatali e lei nacque dopo ore, fu un parto faticoso. Allora ero giovane e non capivo bene, i bambini piccoli mi sembravano tutti uguali. Quando mi resi conto che mia figlia era disabile, inizialmente mi disperai, poi, con l’aiuto della fede e della preghiera, riuscii ad accettarlo. Nel tempo la mia Stellina crebbe solo fisicamente, nella sua testa invece si inseguivano i pensieri e le parole di una bambina di tre anni. Dovetti imparare a capirla, accettarla ed amarla com’era. Quando si ha un figlio disabile, bisogna adattarsi ad una routine sempre uguale per non turbarne il fragile equilibrio. L’assistente dell’Associazione che la segue durante la settimana, mi ha spiegato che questi ragazzi sono abitudinari, un qualsiasi cambiamento li mette in crisi. Così sono passati i nostri giorni: colazione al mattino (sempre lo stesso latte coi biscotti), pulizie personali, poi, se è domenica si gioca con le bambole, altrimenti si va all’Associazione per le attività operative e il pomeriggio ai giardini pubblici. Questa gita ai giardini corrisponde al momento più felice della giornata di Stellina: lei si trasforma quando è in mezzo al verde, anche la sua postura muta: drizza la schiena e salta felice in mezzo alle piante, le sfiora come per una carezza, le annusa e starebbe ore nella stessa posizione, persa nei suoi pensieri di bambina piccola.
Le uscite al parco si devono sempre fare, sia che piova o ci sia vento, altrimenti Stella si mette a piangere, grida e cerca di scappare. Siamo uscite anche col raffreddore e per fortuna, sia io che lei, siamo di fibra forte e non ne abbiamo mai risentito. Ieri, ascoltando il telegiornale, ho saputo che, con questa nuova epidemia, bisogna stare chiusi in casa e non andare da nessuna parte. Per tutta la notte non sono riuscita a dormire pensando a cosa farò domani.
L’Associazione è stata chiusa e quindi si gioca con le bambole, non si può frequentare nessuno. Che farò oggi pomeriggio? Guardo fuori dalla finestra, il mio quartiere è composto da case modeste, un po’ malandate, con qualche giardinetto misero e recintato. Dietro casa c’è un condominio, che ha visto tempi migliori, con un giardino più ampio sempre deserto, però è tutto circondato da un recinto e da una siepe. Attualmente vi abitano molti extracomunitari che hanno messo sulle terrazze grandi parabole rotonde. Ogni tanto una signora di colore si affaccia al terrazzino corrispondente al mio piano e i nostri sguardi si incrociano. E’ arrivato il momento più temuto: l’ora dell’uscita; faccio finta di niente, ma Stellina è sempre più inquieta. Si alza, corre verso la porta e io non faccio a tempo a fermarla: è già fuori. Le corro dietro, sul retro della casa, riesco a fatica a prenderle un braccio, è molto più forte di me. Finché era vivo mio marito la teneva lui, ma ora… Mentre sono fuori, la signora del condominio mi guarda, poi mi fa un cenno. Dopo poco scende e mi parla dall’altro lato della siepe. “Figlia piange, vieni nel nostro giardino!”. In fondo è come se uscissi solo nel giardino di casa, non trasgredisco la legge se ci vado. Entriamo passando da un buco che non avevo mai notato nella recinzione. Il giardino non è curato ma è ampio, con alberi di diverso tipo e già qualche viola. Stellina si rasserena, corre e salta raccogliendo qualche fiore. “Mi chiamo Maria” dico alla signora, distanziandomi di un metro come prescritto, “Maryam” mi risponde. La ringrazio con un sorriso, mentre si allontana.

Nella Talamini