Tutti nella stessa barca. Non ci sono più ricchi e poveri, buoni e cattivi, italiani e stranieri. Nessuno che possa cavarsene fuori o valere più degli altri. La pandemia percorre il mondo e imbarca tutti senza distinzioni e differenze. Il coronavirus rivela la comune natura umana e l’uguale condizione che tutti ci caratterizza. Una bella scoperta, alla quale il cristianesimo ha orientato il mondo e alla quale popoli e persone aspirano. Ora è un dato di fatto.
Per grazia ricevuta, i discepoli di Gesù sanno che nella stessa barca è salito pure Lui e ancora dopo 20 secoli naviga con noi, avendo Egli avuto la bella ventura di risorgere e rimanere vivo.
Nella prima barca nella quale Gesù attraversa il lago-mare di Galilea, i discepoli non lo badano, lo lasciano dormire a poppa, ma all’insorgere della tempesta lo svegliano e lo rimbrottano: “Maestro, non t’importa che periamo?” Un’altra volta, sullo stesso lago e forse sulla stessa barca, i discepoli continuano a lamentarsi di non avere il pane per mangiare. Gesù li guarda e li rimprovera: “Non ricordate quante volte avete mangiato il pane moltiplicato?”. Chissà se oggi, nel mezzo della tempesta del coronavirus, noi cristiani siamo così certi che Gesù è con noi. Chissà se ricordiamo il miracolo della nostra nascita e del dono della fede che ha cambiato l’orizzonte della nostra vita. Ci pervade un sussulto ogni volta che ci imbattiamo in qualcuno che ce ne rinnova la memoria. In una lettera inviata alla Fraternità di Comunione e Liberazione, don Julian Carron, dopo aver citato l’episodio del lago, riporta una testimonianza che lo ‘lascia senza parole’: «D’improvviso sono stata catapultata in trincea. Sembra di essere in guerra. Il mio quotidiano lavorativo e familiare in un giorno è cambiato. Da medico, da mamma, da moglie mi ritrovo a dormire in isolamento da mio marito, a non vedere i miei figli da due settimane, a non poter avere un contatto diretto con il paziente. Tra me e i miei malati c’è una maschera, una visiera e il loro scafandro. Spesso sono anziani che vivono da soli questo momento. Hanno paura…. Entro in reparto, cerco un sorriso e l’abbraccio di un’infermiera amica… E posso abbracciare solo loro. La certezza che sostiene la nostra vita è un legame, e c’è un cammino da fare per arrivare a questa certezza affettiva. Le circostanze ci sono date per attaccarci più a Lui, che ci sta chiamando in un modo misterioso. La fede è fidarsi che Lui ci sta chiamando. … È questa certezza che posso dare ai miei malati, ai parenti, oltre che fornire le cure mediche».
Tutti nella stessa barca: con Lui.