Il rapido scorrere del tempo ha posto l’uomo del Terzo Millennio di fronte ad uno scenario inedito e inaspettato. La prospettiva antropocentrica e totalizzante del dominio tecno-scientifico sul bios, l’idea che le leggi della natura non dipendano da un progetto trascendente, ma dalla ragione, è stato messo in discussione, in crisi, dalla pandemia di oggi. Ci siamo ritrovati sgomenti: il COVID-19 con la sua carica dirompente e devastante ha spazzato via le nostre certezze effimere, su cui abbiamo fondato fino a ieri la nostra quotidianità, ridefinendo il significato autentico e profondo della vita e della morte.
Come ha affermato Papa Francesco, durante l’Indulgenza Plenaria del 27 marzo, ci siamo ritrovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda.
Un bilancio è prematuro, tuttavia è doverosa una pacata riflessione che ci coinvolga come cristiani, operatori sanitari e cittadini. L’emergenza ha imposto delle regole, anche molto restrittive, per tutelare il bene primario della salute di tutti. Avendo allontanato i malati dai propri cari e da figure di prossimità, quali, primi fra tutti, gli assistenti religiosi, il personale sanitario si è trovato coinvolto in un ruolo duplice, quello cioè di esercitare la propria professione, ma anche di assistere e confortare oltre il proprio compito, per colmare il vuoto degli affetti lontani.
In tal modo il peso della solitudine delle persone nei luoghi di cura è stato meno distante e siderale.
Medici, infermieri, operatori sanitari, lo stesso personale delle imprese di pulizie e i volontari non si sono sottratti e, in alcuni casi, hanno pagato con la vita questo slancio, questo afflato caritatevole verso il prossimo. Si sono prodigati per lenire le sofferenze, per alleviare il dolore e l’angoscia. Tutto ciò è stato fatto con dedizione, migliaia di volte e nell’anonimato. Il loro atteggiamento senza richiamare epiteti, quali eroi o angeli, è sicuramente stato esemplare, anche nelle difficoltà.
La pandemia, pure nella sua tragicità, ha fatto vibrare le corde più profonde della solidarietà, della fratellanza e dell’umanità.
Curare e prendersi cura sono confluiti in un’unica mission, ribadendo, nella molteplicità dei ruoli e delle competenze, la centralità della persona.
Alla dimensione sanitaria e assistenziale, altri piani di lettura si affiancano per completare il mosaico, in primis quello psicologico-spirituale e quello teologico-pastorale.
L’uomo è infatti un’unità inscindibile di spirito, anima e di corpo, e non va solo alleviato nelle tribolazioni, ma anche ascoltato e compreso, aiutato a trovare un senso a ciò che sta vivendo. Si può pertanto dire che la sofferenza innova senza sosta, pur nella consapevolezza della fragilità e della finitudine, il mondo dell’amore disinteressato, che si dischiude all’infinito, attraverso un percorso teologale di fede, di speranza e di carità.
Tantissime sono le storie che potremmo citare, dalle caratteristiche molto simili, per la drammaticità dell’esperienza vissuta: il trovarsi a dover affidare ad una ambulanza un proprio caro, la sensazione angosciosa che quel saluto dato sarebbe stato anche l’ultimo, il senso di colpa per non poter fare nulla per lui, l’attesa estenuante di ricevere notizie, fino all’arrivo di “quella” telefonata, che non si vorrebbe mai ricevere, con il verdetto di morte. A quel punto dovrebbe iniziare quella fase che normalmente fa da premessa all’elaborazione del lutto, che invece viene negata. L’ultimo saluto al proprio congiunto e il rito delle esequie negati: ferite profonde sia da un punto di vista psicologico che, per molti, spirituale e religioso.
Storie drammatiche caratterizzate da paura, incertezza, distacco, sgomento, frustrazione, attesa, solitudine, angoscia, speranza, negazione, senso di colpa, disperazione, …
Occorre ancora sottolineare, da una parte, la capacità degli operatori sanitari di farsi carico dell’aspetto umano relazionale di fondamentale importanza, in una situazione del genere e per nulla scontata (il prendersi cura della persona, non solo per la malattia, ma vedendo in lui/lei una storia in cui rispecchiarsi, ha risvegliato anche per il personale un senso spirituale e religioso, e molti operatori sanitari si sono fatti spesso accanto nell’accompagnare alla morte i pazienti aiutandoli a pregare, facendo un segno di croce, diventando per un giorno ministri straordinari dell’Eucarestia).
Dall’altra il sostegno della fede, il risveglio del senso spirituale e religioso: si è constatato che, per molti operatori, ciò che ha aiutato è stato il tentativo di dare senso a quello che stava capitando, e che stava “devastando” anche la loro esistenza professionale e familiare. Un vero e proprio trauma che non solo ha evidenziato la fragilità umana in tutte le sue molteplici forme, ma ha dato origine per molti di loro, e non solo, ad un disturbo post traumatico da stress (insieme a forti sofferenze psicologiche che conseguono ad un evento traumatico, catastrofico o violento: angoscia di morte, insonnia, incubi, ansia, flashback, reazioni fisiologiche emozionali, ecc. …).
Non dimentichiamo elementi come l’allontanamento forzato dalla famiglia e lo stigma subìto, che hanno inciso minando ulteriormente l’equilibrio personale; così pure il recupero della fede, di un costante dialogo con Dio, supportato anche da interlocutori a cui si sono potuti rivolgere (grazie ai Centri di ascolto attivati con la presenza di sacerdoti e psicologi): tutti elementi degni di nota.
Angoscia di morte, profonda solitudine, senso di abbandono, paura, accanto a un senso di gratitudine perché non sono stati abbandonati: sono alcuni dei vissuti espressi dai malati.
Tenuto conto di quanto fin qui espresso, il nostro “fare” pastorale dovrebbe ripartire dalle seguenti espressioni e atteggiamenti che possono essere sintetizzati in:
“esserci” e “stare” come persona (non solo come tecnico e professionista o con un determinato ruolo); umanizzare i luoghi di cura come impegno a fare emergere la “relazionalità”, quale elemento curativo, un fondamentale aiuto per attraversare le situazioni dolorose (perché il dolore va attraversato) e recuperare la dignità di persona; narrazione intesa come possibilità di raccontarsi per recuperare un orizzonte di senso in quello che si sta sperimentando e vivendo (questo è valso indistintamente per operatori sanitari, malati e familiari); ascolto silenzioso (non ci sono mai risposte “accettabili” di fronte a tanto dolore), cioè la “presenza” a parlare/rispondere; speranza come atteggiamento di fiducia, emersa grazie ai gesti di presenza e vicinanza espressi in varie forme (da operatori sanitari, cappellani, vicini di casa…), primo tramite per recuperare la propria spiritualità e talvolta la propria fede.
Ora quella fraternità umana, quel sentimento di solidarietà, espresse dalla filantropia, si declinano chiaramente in una concezione di amicizia e di reciprocità: la disponibilità favorevole verso l’altro, che si è creata in questi mesi, ha stabilito un contatto fra le persone rendendole alleate, amiche, ospiti. Si è realizzato un rapporto interpersonale e di un’opera collettiva, dove a dettare le leggi dell’esistenza e dell’offerta di sé è stato realmente l’amore verso i fratelli. In questo amore per l’uomo, abbiamo potuto godere dell’incontro con Cristo che può presentarsi come povero e bisognoso, provocandoci alla carità.
Il valore dell’accoglienza e dell’autentica solidarietà umana si esprime, a livello comunitario, come quella filantropia che, esercitata nell’accoglienza e nel servizio, realizza una predicazione ed esprime amicizia, divenendo una categoria teologica, un elemento fondante per una inequivocabile espressione cristiana che coinvolge la fede, la speranza e la carità.
Si tratta della “via del buon esempio”, una prerogativa cristiana, per ciò che generosamente sappiamo offrire con gratuità agli altri, spostando lo sguardo dal nostro “io” per dirigerlo verso un “tu”.
Le stesse parole di Gesù – «Vi ho chiamato amici, vi ho fatto conoscere Dio, il Padre mio» (Gv 15,15) – esprimono come l’amicizia e la fraternità con Cristo ci permettono di vedere l’invisibile, e la filantropia diventa un’autentica via per conoscere Dio.
A questo riguardo, la premura dei cappellani verso il personale, verso i pazienti e le loro famiglie è stata una presenza positiva ed accogliente, un’offerta di tenerezza, di amicizia e di ascolto, favorendo un’apertura dell’anima, conducendo le persone, magari sino ad allora distanti dalla pratica del loro credo, ad un impegno più responsabile, ad un incontro ravvicinato con Dio, ad un desiderio di ricevere i sacramenti cristiani.
Tanti operatori sanitari nelle corsie d’ospedale, nonostante le corse sfrenate, hanno riscoperto con più attenzione ciò che ci circonda, diventando più collaborativi. È come se si fosse accesa una luce in una stanza buia e ci si fosse riconosciuti eguali, tutti fratelli e sorelle; Dio dunque, si è mostrato e si è fatto riconoscere attraverso l’esercizio di una tale generosa beneficenza.
Attraverso questi atteggiamenti di profonda amicizia e di vera umanità, abbiamo scoperto la relazione con Dio, riuscendo a scorgere il suo volto umano, il volto di Cristo! Attraverso tanti uomini e donne di buona volontà, abbiamo incontrato il medico divino delle anime e dei corpi, abbiamo parlato di Lui, dialogato con Lui.
Ad ogni incontro deve però far seguito una frequentazione. Non si può trovare un tesoro, in mezzo alla tempesta, per poi abbandonarlo quando torna a risplendere il sole; ripiomberemmo nella carestia, nella grande povertà! Dobbiamo continuare a realizzare il comandamento dell’amore lasciato da Gesù Cristo ai suoi discepoli: «Amatevi come io vi ho amato» (Gv 15,12), in una spiritualità del quotidiano e della prossimità.
La strada dell’umanizzazione e della cura, per noi credenti, incrocia sempre quella del Vangelo del Regno, che è in mezzo a noi. In ogni situazione della vita.
Ed è una strada che, seppure in salita, è sempre aperta, percorribile per tutti.
Mons. Marco Brunetti,
Vescovo delegato della Conferenza Episcopale del Piemonte
e della Valle d’Aosta per la pastorale della salute