“Avremmo voluto celebrare tutti insieme i 25 anni del Progetto Policoro proprio nel luogo dove è nato, in Basilicata, ma ci siamo dovuti accontentare di stare sulla piattaforma web. Dai commenti dei giovani partecipanti possiamo dire che è andata molto bene, ma non è stato facile” – le parole di Don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio CEI per i problemi sociali e il lavoro, a pochi giorni dal termine della 37^Formazione Nazionale del Progetto Policoro.
“Sorpresi dalla pandemia Covid-19 siamo stati costretti a modificare in corsa i nostri piani. L’arma vincente del Progetto Policoro è la relazione e in questa occasione ci è mancato l’incontro fisico. Grazie alla collaborazione tra i formatori e i docenti della SEC (Scuola di Economia Civile), abbiamo associato al percorso tradizionale qualche attenzione più specifica alla crisi socio-sanitaria in corso. La pandemia non può passare sopra le nostre teste”.
Un compleanno importante, festeggiato forse con pizzico di nostalgia. Ma la presenza in rete di oltre 200 animatori di comunità, provenienti da tutta Italia, ha reso meno amaro il boccone. Gli animatori vivono di relazioni umane, ma si nutrono soprattutto di formazione e la realtà che stiamo vivendo ci impone di strutturare nuovi format, strumenti e processi: è una bella sfida?
“La rivoluzione digitale e le trasformazioni in atto nella società obbligano a una strategia che va in una duplice direzione. Per prima cosa bisogna capire le potenzialità del nuovo che avanza attraverso un’azione di discernimento. Il lavoro (o buona parte di esso), invoca una più forte personalizzazione. Si può cogliere nel futuro l’occasione per liberare il lavoro dagli elementi di anonimato, spersonalizzazione, catena di montaggio, pesantezza, pericolo per la sicurezza del lavoratore. Al contempo, però, il lavoro deve liberarsi dagli appesantimenti delle ideologie passate e dal rischio di diventare superfluo. Le diverse teorie che spostano l’attenzione dal lavoro al reddito, destano preoccupazione. Sono figlie dell’idolatria del denaro e mettono in un angolo la persona. Misure come il reddito di cittadinanza hanno senso solo in una temporalità limitata. A lungo andare non tengono. Serve, invece, un lavoro di cittadinanza. La centralità della persona disegna un protagonismo dell’uomo, che vive la sua dignità nel lavorare, nel costruire e nel rialzarsi. E’ implicata la vocazione di ciascuno”.
È difficile immaginare un modello formativo/lavorativo che non preveda il contatto diretto con l’altro. Eppure dobbiamo provarci. Il digitale e lo smart working, come possono contribuire positivamente nelle attività di apprendimento e nella formazione di competenze?
“Le tecnologie sono una possibilità, purché gli algoritmi non sostituiscano il valore della coscienza umana nel prendere decisioni circa il bene e il male. Lo smart working non va confuso con il semplice home working – per cui basta che il lavoratore si connetta da casa – esso infatti, induce a configurare un differente approccio al lavoro, chiamando in causa una progettualità cooperatrice, che interessa il datore di lavoro e i suoi dipendenti. Cambia il modello di rapporto lavorativo. Potrebbe andare definitivamente in soffitta lo schema schiavo – padrone del passato”.
A poco serve sperare di ritornare alla tanto ambita “normalità”, c’è piuttosto bisogno di rinascere a vita nuova. Tocca reinventarsi e a quanto pare, ancora una volta, sono i giovani ad essere chiamati a fare la differenza?
“I giovani sono stati definiti come «nativi digitali»: si attrezzano più facilmente a simili trasformazioni. Del loro protagonismo abbiamo bisogno come di acqua fresca nelle giornate afose estive. Ma non possono essere gli unici ad adeguarsi. Occorre un impegno intergenerazionale che diventi un saggio scambio di competenze e di visioni. Il nuovismo, come il giovanilismo, rischia di non cogliere contenuti fondamentali del lavoro, che non è solo autorealizzazione, ma è anche costruzione progettuale di comunità”
Da qualcosa dovremo pur partire però. Va da se che in questo marasma di cambiamenti, sono necessarie linee guida delineate ed efficaci, per costruire la nuova società
“Una nuova classe politica è una priorità. Non si tratta di cambiare i volti, ma lo stile. Oggi c’è una politica che tende a salvaguardarsi, senza alcuna preoccupazione per le future generazioni. È una politica la cui povertà di contenuti è inversamente proporzionale alla volontà di dominare e di parlare su ogni cosa. I politici intervengono su tutto, pur mancando di competenza e lo fanno con la faccia tosta dell’uomo qualunque, da bar sport. Hanno sempre un capro espiatorio sul quale buttare addosso le responsabilità di ciò che non va. Che fatica a venirne a capo con gente così. Ci sono però anche politici a servizio dello Stato, che non bucano i video degli smartphone, ma mettono a disposizione la loro competenza in silenzio, dietro le quinte. Costruiscono progetti, preoccupati del bene comune più che della loro carriera personale. La loro dedizione va valorizzata perché di gente così abbiamo estremo bisogno per il nostro futuro”
Don Bruno, l’Italia è pronta al cambiamento?
“Temo di no. Non voglio essere pessimista, ma non è detto che la crisi vissuta in questo periodo ci abbia migliorati. Basti pensare al caso Silvia Romano: la reazione di molti, è segno che la paura e l’angoscia del lockdown hanno incattivito gli animi. Se non sappiamo riconoscere la «meglio gioventù», perché applaudire i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari che hanno curato i nostri malati nel periodo di più grave crisi? Innaffiare di veleni l’animo umano costa poco. C’è però una notizia positiva. L’uomo è sempre in grado di cambiare rotta. Ciò dipende dalla qualità delle relazioni e dallo spessore morale di un popolo. E’ urgente formare le coscienze, se non si vuole che il peggio prevalga” – conclude Don Bruno Bignami.
Clelia Esposito