Sappiamo dell’esistenza di molte cose brutte. E quando queste si verificano, non ci stupiamo più di tanto. Ce la caviamo pure con un laconico «mi dispiace». E davvero siamo dispiaciuti!
Ti dispiace quando un amico fa rimbalzare la notizia di una sua cugi na… che conosce una coppia… la quale ha avuto un bambino affetto da una grave disabilità. Ti dispiace. Però, si sa, «purtroppo sono cose che succedono». C’è una cosa che non dici e che, tutto sommato, nemmeno pensi, e che pure è come se pensassi: che certe cose capitano solo agli altri. Agli altri…
Per qualcuno, invece, un giorno, senza preavviso, le cose cambiano drasticamente. «Qualcuno», appunto. Pochi, pochi; molto pochi rispetto al totale. Così pochi che quello stesso «qualcuno» mai avrebbe preso in considerazione l’eventualità di farne parte.
Quel qualcuno sei tu. E il bambino affetto da una grave disabilità ora è tuo figlio. Ti stupisci? Non sapevi che esistessero i bambini disabili? Non avevi cambiato distrattamente canale mentre andava in onda per l’ennesima volta la pubblicità di Telethon? Sì, ti stupisci. Anzi: non ti capaciti proprio. Perché i disabili sono tra i figli degli altri. Non fra i tuoi. Non lo hai mai detto. Non lo hai mai pensato. Ugualmente hai vissuto come se l’avessi detto e pensato.
È umano. Inutile flagellarsi o affliggersi. Siamo fatti così.
Un’alluvione a diecimila chilometri di distanza (con centinaia di vittime) risuona emotivamente quanto la lesione al crociato del centravanti di turno, che vede così concluso il proprio campionato. Infatti, entrambe le notizie vengono date in perfetta successione, durante il telegiornale della sera.
Siamo fatti così e, soprattutto, vorremmo continuare ad essere fatti così.
Di fronte alla disabilità di un figlio, non è raro che gli ultimi a «vedere» la cosa – talvolta a vederla nel senso letterale del termine – siano proprio i suoi genitori. I quali farebbero di tutto per resettare il sistema, per convincersi l’un l’altro che la diagnosi è sbagliata, che sono tutte congetture. Che non è vero, perché non può essere vero.
Alcuni anni fa, per una banale caduta, mi fratturai la colonna vertebrale. Dell’episodio non ricordo nulla. Ricordo bene, però, il risveglio al pronto soccorso e, alle parole infauste del medico, il mio primo pensiero: «No! Non è possibile…! Io non ho fatto niente!». Già: com’è possibile che ti accada una cosa del genere se nemmeno lontanamente hai fatto qualcosa che fosse a rischio di procurartela? Nei giorni successivi, nella mente passò di tutto. Ma quei pensieri andavano tutti nella stessa direzione: «Non è successo nulla!». Quindi: «Un po’ di pazienza e tutto tornerà come prima».
Ecco, appunto: no. In ospedale, una mattina – ma non fu il giorno dopo, e nemmeno due giorni dopo – mi sveglio e dico: «Io ho la colonna vertebrale rotta». Mi sono sentito improvvisamente perso. Eppure, sentivo anche che era necessario passare di lì.
Se uno cade, c’è caso – seppure raro – che si fratturi la colonna vertebrale. Ecco: «a me è successo; è successo a me!». Non: «c’è caso»; «può accadere»; «a volte…». No: «a me». Finalmente ho saputo ciò che già sapevo e che pure mi ostinavo a non voler sapere.
Siamo fatti così, vorremmo continuare a essere fatti così e, invece, sarebbe importante riconoscere che, qualche volta, non possiamo permetterci di essere fatti così. Perché ci sono momenti in cui, o riesci a dire «a me», oppure può darsi che continui a ripeterti che andrà tutto bene, traducendo, però, con quelle parole, la persuasione che tutto tornerà come prima. Come se tutto quanto è accaduto, in realtà non fosse accaduto.
Invece non è vero. Ti stai solo ingannando. Ingannare se stessi è umanamente comprensibile, ma dannoso, perché presto o tardi, l’inganno salta fuori. A quel punto il rischio di crollare è in agguato.
Se, invece, la vita ti ha colpito, perfino travolto e fatto star male, ma accogli l’eventualità che ti abbia cambiato, cambierà anche il rapporto con il mondo, lo conoscerai in modo nuovo e diverso. Lo conoscerai in un modo più reale, più vero. Da ciò, se vorrai, farai di tutto per occuparti del mondo in un modo altrettanto reale, altrettanto vero.
Tutto quello che stiamo vivendo in questo periodo, comunque, prima o poi, in qualche modo finirà. E sicuramente possiamo dire, ridire, desiderare che «andrà tutto bene». Ma dovremmo pure desiderare, perfino con forza, che «non sarà tutto come prima».
Perché quella epidemia è diventata questa epidemia. Perché quella «disabilità» in un punto remoto del mondo, è la «disabilità» del mio mondo, della mia terra, dei miei amici, della mia famiglia, di mio padre e di mia madre.
Un figlio disabile non è «meno» figlio perché disabile. Dunque, non è «più» figlio se fai finta che non sia colui che è, nel modo in cui è colui che è. Il mondo è «disabile» e noi, oggi, ammalati, ci piaccia oppure no, siamo i suoi sintomi. La guarigione non passa soprattutto dal contrasto ai sintomi, ma dalla cura di ciò che li ha generati. E ogni cura inizia con l’ascolto del paziente.
Il mondo è il nostro paziente e con i suoi sintomi si sta facendo conoscere. È presto per dire che lo abbiamo capito. Ora siamo alle prese con i sintomi – che siamo noi, ammalati – e questo ci preoccupa, ci terrorizza, ci addolora. Ma poi?
La migliore intelligenza del mondo è un compito essenziale, anche per noi cristiani. Perché l’immersione nella Storia, la conoscenza della Storia, l’obbedienza alla Storia, sono le stesse del Figlio di Dio. Reagire alle novità della Storia limitandosi a replicare i comportamenti del passato, fa correre il rischio di non comprendere il mondo.
Evocare l’azione luminosa di vescovi e pastori di secoli addietro, di fronte a eventi calamitosi, dovrebbe servire a suscitare il medesimo slancio e il medesimo desiderio di cura. Assumere i loro stessi comportamenti, adottare le medesime scelte, invece, non può essere fatto ignorando i progressi che le scienze oggi hanno raggiunto. Le scienze sono opera dell’uomo per immergersi nella Storia: una simile ricerca non risuona forse già di Gesù Cristo e del suo Spirito?
Oggi abbiamo un’intelligenza diversa del mondo, quindi anche delle malattie. Per quanto si tratti di un’intelligenza imperfetta, incompleta, in divenire, c’è una comprensione diversa di ciò che significhi un’epidemia; di quali siano i processi di un contagio e quali le strategie della cura; di quali siano le attenzioni da avere per la protezione delle persone più vulnerabili. Avere a cuore tutto ciò e amare il Vangelo di Gesù, dunque pure la Storia e coloro che la abitano, probabilmente sono la stessa cosa. Anche per molti che non lo sanno, eppure del Vangelo sono splendidi testimoni.
di Stefano Guarinelli, docente del Seminario