di padre Marco Canali
In queste settimane di pandemia mi sono domandato spesso quale fosse la mia “prima linea” di prete di fronte alla recrudescenza del male, alla solitudine delle persone, alle richieste di aiuto materiale delle famiglie. Lo confesso: mi sono sentito provocato anche di fronte alle interpellanze di alcuni – peraltro, pochi, anche se la loro voce sembra risuonare più forte in questo isolamento – che invitano la Chiesa a fare autocritica sul suo modo di essere in quest’ora drammatica, nella quale, di fronte al corona virus, la corona del rosario sembrerebbe essere ben poca cosa, mentre in tanti, a rischio della vita, sono “in prima linea” nel tentativo di contenere e di debellare l’oscuro nemico che si aggira tra noi.
Se sulle prime è molto facile cedere al dubbio “sul da farsi” e allo sconforto perché “quanto si fa” non sembra mai essere mai sufficiente, tuttavia, praticare il discernimento, abitato dallo Spirito, aiuta ad assumere comportamenti responsabili conformi al proprio stato di vita.
Così mi sono ripetuto quattro verbi, “essere e non fare”, “essere in” ed “essere per”, imparati in seminario e nell’esempio tangibile e quotidiano di tanti preti “di casa nostra”.
Essere preti e non Fare i preti
Anzitutto, siamo stati ordinati dal Vescovo “per essere” preti, ma non “per fare” i preti.
Nonostante tutte le caricature con le quali le persone spesso connotano il nostro ministero o noi stessi “ce la contiamo su”, questo sacramento non è stato, non è e non sarà mai “un mestiere” con al centro “il fare”. Potrebbe certamente correre il rischio di trasformarsi nella “lunga mano” di una Ong. Papa Francesco, il giorno dopo la sua elezione al ministero petrino, ammoniva di questo pericolo incombente: «Noi possiamo camminare quanto vogliamo, noi possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una Ong assistenziale, ma non la Chiesa, Sposa del Signore».
Questo non ci esime affatto dall’essere sul fronte della carità – quante opere di sussidiarietà in Italia sono indispensabili alla stessa Nazione e ne abbiamo la prova anche oggi -, ma questa stessa carità sussiste solo senza perdere di vista l’ “essere in”.
Essere in
Con l’imposizione delle mani da parte del Vescovo ci siamo legati indissolubilmente con Cristo in una relazione fondamentale. Siamo diventati partecipe del suo unico sacerdozio così che non lo si rappresenta semplicemente o lo si esercita, ma lo si vive in Cristo. San Paolo VI lo descriveva con accenti profondi: «Cristo ha in noi il suo vivo strumento; quindi, il suo ministro; perciò il suo interprete, poi, l’eco della sua voce; di più: i il suo tabernacolo; il segno storico e sociale della sua presenza nell’umanità; il suo focolare ardente d’irradiazione del suo amore per gli uomini». Ma questo “prodigio” non va mai confuso col rinchiudersi “in sacrestia”, perché non è più il tempo né di “altaristi” né di “abatini”.
Questo lo si evita, se si ricorda l’ “essere per”.
Essere per
Sant’Agostino diceva bene di sé: «con voi sono cristiano, per voi sono vescovo e prete». Per ogni sacerdote questo “essere per” significa che la comunità cristiana può far conto su di lui. «Per ogni sacerdote, questo non è solo dedizione ad un sacramento, cioè un impulso del cuore, della mente o delle emozioni: è molto di più! È una vera e propria dedicazione – ci ha ricordato non molto tempo fa il nostro vescovo Franco Giulio – È, infatti, la fedeltà che perdura alla prova del tempo; è la forma del volere e della scelta; è la forma stabile della libertà, perché la fedeltà è la forma matura della libertà; è, infine, la forma della fedeltà che libera ogni sacerdote dall’improvvisazione del momento, dai capricci dei sentimenti, dal dover inventarsi da capo ogni giorno, senza togliere per questo spazio alla scioltezza, alla libertà e alla generosità rinnovata».
Ecco perché anche in questo tempo di pandemia anche noi preti siamo “sul fronte” a combattere, col modo che ci è proprio, a fianco di tutti, la battaglia contro la pandemia.
Le nostre comunità cristiane contano su di noi e non ci chiedono altro che questo.
Noi non possiamo scordarcelo.
Non perderemmo solo le comunità e noi stessi, ma il Signore, a cui ci siamo “dedicati” per sempre.