Il diritto alla speranza

Il diritto alla speranza

Vorrei entrare attraverso questa porta spalancata dalla resurrezione di Gesù, il Crocifisso Risorto che Papa Francesco ci ha ricordato nella sua omelia nella Veglia pasquale: “Stanotte conquistiamo un diritto fondamentale, che non ci sarà tolto: il diritto alla speranza” (Omelia nella veglia pasquale nella notte santa. Papa Francesco, 11 aprile 2020) per condividere con voi qualche frammento di questo tempo intenso che tutto il mondo sta vivendo. Lo faccio a partire dal mio servizio ecclesiale che è quello dell’ascolto e dell’accompagnamento di persone che per diversi motivi sono state ferite nella loro vita e che chiedono un aiuto per poter ripartire con maggiore dignità e speranza. Lo farò insieme a loro perché sono convinta che la voce dei più deboli e vulnerabili sia la voce del vangelo che anche oggi, in questo tempo oscuro e di prova siamo tutti chiamati ad ascoltare.

Parto da due testimonianze dirette che posso condividere con tutti: ” Cerco di ascoltare ciò che ho dentro, faccio fatica perché in questo silenzio che ci sta attorno, dentro di me ho solo delle grida: quelle del pianto di molti che si sentono provati più delle loro forze, più di quanto possano portare. Piangono per la paura e l’angoscia di sentire che viene meno il respiro e quindi la vita. Piangono perché capiscono che moriranno da soli. Si piange per il dolore, per questa misteriosa e grave ingiustizia che ha creato vuoti dolorosi nella loro vita, assenze che non si potranno più ricucire, affetti che mancheranno per sempre. Grido con loro, piango, gemo, non comprendo, la stanchezza enorme copre ogni altra emozione, pensiero, sentimento, forse è meglio così. La domanda: perché? Rimane aperta e l’impotenza la riempie di rabbia. La scienza ci dà risposte parziali che non sono sufficienti per placare il senso di inadeguatezza che ci prende. Grido contro Dio e non mi sento nel peccato. Grido per coloro che non possono neanche farlo!. Si avvicina la Pasqua, ma cosa vuol dire per noi oggi che siamo in una valle di lacrime? Fatico a trovare un senso accettabile. Quando ho finito il turno, se ho ancora forza, passo e benedico i malati in forza del nostro battesimo. Sono una donna credente o lo ero? Non lo so più. Io e tutta questa umanità che mi sta attorno siamo nel tempo vuoto del sabato santo. Dio è muto da tempo, Gesù morto e sepolto. E di noi chi si prenderà cura? Me lo dici tu dove andiamo a trovare la speranza? E cosa vuol dire fare Pasqua? E dove possiamo trovare la forza per fare Pasqua?” (Un medico)

“Oggi mi ha chiamato una mia amica e questa telefonata è troppo pesante per portarla da sola ne voglio parlare con te. Il covid sta sterminando persone e lacerando per sempre le vite di coloro che sopravvivono. Alle volte ti chiedi perché e se vale la pena di sopravvivere. Solo nel mio paese ci sono diversi orfani. Ragazzi e adolescenti che hanno perso i nonni e i genitori. Oggi ho saputo che è morta la mamma, unica superstite, di M, una ragazza disabile che è rimasta sola. Non è capace di autogestirsi e la sua mamma ha sempre chiesto la grazia di guarire per lei. E’ rimasta lucida sino alla fine. Non oso neanche pensare alla sua disperazione perché è un dolore così forte al quale non riesco neanche ad avvicinarmi, te lo dico perché da sola non ce la faccio più a portarlo” (Una catechista)

Cerco di mettermi in cammino accanto a queste sorelle che ci portano dentro a ciò che quotidianamente vivono e che ci aprono una serie di interrogativi esistenziali e di fede.

Partecipare al dolore

Il lutto è il lungo tempo di reazione e rielaborazione che viviamo nella separazione da una persona cara. Nello spezzarsi di un legame prezioso di amore e di amicizia. In questi mesi non ci è data la possibilità di fare lutto: non si può andare a trovare i proprio cari mentre sono ricoverati, li si immagina soli, per il carico di lavoro negli ospedali si fatica ad avere notizie ed è quasi impossibile contattarli, si vive in questa angoscia della perdita senza nessuna possibilità di vicinanza, si muore soli e non può esserci neanche una preghiera comune che possa almeno un poco dare sollievo: tutto ciò rende ancora più crudele e triste la morte delle persone care. E’ un dolore nel dolore che ci fa precipitare in un senso di desolazione e ingiustizia.

Partecipare al dolore vuol dire lascarsi toccare accettando di non avere ne parole, ne risposte adeguate. Stare vicino a chi soffre ci fa attraversare tutta la nostra impotenza e ci fa condividere, in un certo senso, la vulnerabilità più estrema: il dolore innocente ci inquieta, ci disarma e ci chiede di saper rimanere accanto senza cercare di risolvere tutto in parole che risulterebbe vuote e inadeguate. Alle volte dobbiamo riconoscere che le parole servono più a noi per allontanarci dall’imbarazzo che sentiamo, dall’impotenza che avvertiamo e ci offrono quasi una fuga che in queste circostanze fa solo del male a coloro che ci vivono la prova.

Tutto questo dolore non deve però impedire la carità, possiamo e dobbiamo trovare modi per farci prossimi con gesti delicati e rispettosi, senza essere ne invadenti ne curiosi può essere il venire incontro ad un bisogno concreto per affrontare le giornate, può essere una telefonata che lascia lo spazio alla parola che l’altro riesce, può e desidera condividere, ascoltare con delicatezza e comprensione e, soprattutto, con prudenza e fedeltà è un segno e un’opera di carità. Cercare di capire ciò di cui c’è bisogno e non abbandonare nessuno in una ulteriore drammatica solitudine bensì attivare una catena di solidarietà quotidiana e concreta, ritessere legami fedeli e attenti alle diverse circostanze può sostenere chi attraversa prove pesanti e vive nell’angoscia del futuro sempre più incerto.

E, dobbiamo riconoscere che c’è anche una forma di carità che dobbiamo verso noi stessi: accettare come noi stiamo attraversando e vivendo questo tempo, secondo la nostra sensibilità che ci viene da come la nostra storia si è tessuta nel corso degli anni: esperienze, lutti attraversati, malattie, relazioni affettive solide o fragili, legami che stavamo ricucendo che si sono interrotti, la precarietà del lavoro, l’impossibilità di avvertire una continuità nel futuro che stavamo cercando di fare ripartire. In un certo senso dobbiamo imparare a farci prossimi anche a noi stessi per accettare e rispettare ciò che sentiamo e viviamo, per poterlo fare così anche in famiglia e nei contesti di vita in cui siamo. Anche questo è una forma di partecipazione al dolore e una esperienza che ci rende  più umani e può aprire alla solidarietà.

L’icona di Maria che sta ai piedi della croce dove è innalzato il suo Figlio crocifisso, è l’icona che porto nel cuore in queste lunghe settimane di duello tra la morte e la vita. Scriveva il card Martini in una sua lettera pastorale del 2000-2001 La madonna del sabato santo: ” A volte ci troviamo smarriti di fronte ai segni della sconfitta di Dio. In questo senso il tempo che stiamo vivendo potrebbe essere visto come un sabato santo nella storia. Come lo viviamo? Che cosa ci rende smarriti nel contesto odierno della nostra situazione? Contemplo Maria: è rimasta in silenzio ai piedi della croce nell’immenso dolore della morte del Figlio e resta in silenzio nell’attesa senza perdere la fede nel Dio della vita, mentre il corpo del crocifisso giace nel sepolcro. In questo tempo che sta tra l’oscurità più fitta – si fece buio su tutta la terra – e l’aurora del giorno di Pasqua – di buon mattino, il primo giorno del sabato … al levar del sole … – Maria rivive le grandi coordinate della sua vita. Proprio così ella parla al nostro cuore, a noi pellegrini nel sabato santo della storia: che cosa suggerisci ai discepoli smarriti? ”

Fermiamoci dinanzi a questa domanda e chiediamoci anche noi quali sono le grandi coordinate della nostra vita, proviamo a rileggere le scelte fatte, le motivazioni che ci hanno sostenuto, i valori che ci hanno guidato, lo spazio che abbiamo lasciato alla carità, le opere di giustizia che abbiamo compiuto, lo stile delle nostre relazioni quotidiane, le paure che viviamo, i desideri e le speranze che abbiamo coltivato e tradotto in gesti concreti. La morte ci mette inevitabilmente dinanzi a queste domande ultime, tutti noi in questo tempo abbiamo sentito la paura, l’angoscia della presenza di un nemico tanto invisibile quanto reale, ci siamo scoperti tutti fragili: tutto ciò non ci deve rinchiudere il cuore, ma aprirlo e avere il coraggio di farci queste domande non solo per affrontare meglio l’oggi, ma per prepararci al domani che ci attende.

La speranza cristiana

La speranza cristiana non è alternativa alla paura. Al contrario la riconosce e la assume. Anche se vogliamo essere coraggiosi dobbiamo attraversare il nostro sgomento. La speranza è qualcosa in più del coraggio e noi facciamo fatica a credere che sia davvero così perché pensiamo di dover essere solo forti senza attraversare la paura, mentre invece la speranza è proprio fatta di perseveranza nella prova, quella perseveranza che ci aiuta a sostenere una lotta che ci può anche far sentire e vivere la paura. E’ l’esperienza di Gesù nell’orto degli ulivi: patisce nell’angoscia più profonda, l’abbandono dei discepoli e lotta con la sua umana paura. Ma nella paura si affida al Padre. “Noi ti preghiamo, o madre della speranza e della pazienza: chiedi al tuo Figlio che ha misericordia di tutti noi che ci venga a cercare come ha fatto con i due discepoli di Emmaus. Chiedi che ancora una volta la sua parola ci riscaldi il cuore. Intercedi per noi affinché viviamo in questo tempo con la certezza che il disegno di Dio sul mondo si compirà e noi potremo contemplare con gioia la gloria del Risorto, gloria che è già presente, pur se in maniera velata, nel mistero della storia”. (C.M.Martini, La Madonna del sabato santo). La speranza cristiana non è un’opera miracolosa di Dio, bensì ci chiede di partecipare proprio alla realizzazione di questo disegno di Dio sul mondo facendo nostre le opere di Dio: giustizia, pace, solidarietà, compassione, carità. La solidarietà radicale di Gesù con la nostra morte si trasforma nella nostra solidarietà con la sua resurrezione: questa è la fede della chiesa, questa è la nostra fede. Celebrare la Pasqua vuol dire entrare in questo mistero di morte e di vita proprio quando la morte ci sembra avere vinto la vita e chiuso la speranza per sempre. Proprio lì noi cristiani siamo chiamati ad alzare lo sguardo e a credere in questa solidarietà, origine di ogni altra solidarietà di vita: nella Resurrezione di Gesù siamo resi fratelli e sorelle gli uni degli altri! Lì ha origine la speranza cristiana: “E’ una speranza nuova, viva, che viene da Dio. Non è mero ottimismo, non è una pacca sulle spalle, o un incoraggiamento di circostanza, con un sorriso di passaggio. No. E’ un dono del cielo che non potevamo procurarci da soli: La speranza di Gesù immette nel cuore la certezza che Dio sa volgere tutto al bene, perché persino dalla tomba fa uscire la vita” (Omelia Papa Francesco, Veglia pasquale).

Il significato personale e sociale di questo drammatico tempo che stiamo attraversando insieme a tutta l’umanità, lo riconosceremo solo se, usciti da questa gravissima emergenza, avremo imparato a vivere diversamente. Con più solidarietà e carità. Non quella che ci soddisfa e sazia, ma quella che ci fa sentire contemporaneamente capaci di dare e bisognosi di ricevere. Se avremo incontrato davvero la nostra personale vulnerabilità e scoperto che proprio per questo siamo davvero sorelle e fratelli di umanità. Se accetteremo di rivedere il nostro stile di vita e non semplicemente tornare ad essere  e fare tutto come prima. Se avremo, quindi, imparato a fare memoria e a scendere dei gradini nella scala della nostra onnipotenza per farci prossimi a tutti coloro che vivono accanto a noi e che abitano altre terre esistenziali: coloro che sono più fragili, soli, bisognosi.

La speranza cristiana si tesse dentro alla trama della quotidianità quando ciascuno assume con responsabilità la cura del fratello e della sorella. Si nutre di giustizia, solidarietà e pace. “Pace a voi!” dice il Risorto ai suoi discepoli chiusi dentro alla stanza per paura di essere scoperti da altri e anche se le porte sono chiuse Lui entra nella casa e la riempie della sua gioia e della sua consolazione. Andiamo, mettiamoci in cammino perché oggi, qui, c’è bisogno di portare pace, speranza, consolazione. Andiamo, anche se ancora siamo  appesantiti dalla paura e fermi nelle nostre case in questo esercizio di responsabilità verso noi stessi e verso gli altri: anche questo esercizio di cura reciproca ha tanto da insegnarci!  Ciascuno di noi è chiamato a scoprire vie di prossimità anche in questa pedagogia della distanza che ci invita a scoprire che nel voler bene la delicatezza della distanza ci fa crescere nel rispetto dell’altro, nel saperci fermare sulla soglia di ogni vita per rispettarla e onorarla impariamo ad aprire il nostro cuore con maggiore misericordia, nell’intercedere per tutta l’umanità che geme e soffre viviamo una carità che è certamente feconda.

Non sappiamo per quanto tempo e come si evolverà questa emergenza sanitaria e sociale, stiamo però imparando, anche a caro prezzo, che le tenebre possono aprirci a piccole ma essenziali luci. Queste tenebre, che tantissimi fratelli e sorelle soffrono, possono essere – e devono essere – per ciascuno di noi occasioni per imparare ad amare, sperare e far maturare la nostra fede. Questo è mettere in circolo la vera speranza cristiana e stare cordialmente accanto a coloro che hanno pagato e stanno pagando il prezzo più alto in questa prova: malati, medici, operatori sanitari, famiglie, persone più fragili, anziani.

di Anna Deodato, ausiliaria diocesana, formatrice vocazionale