di Pier Cesare Rivoltella, docente all’Università Cattolica di Milano e presidente del Cremit.
La peste, le epidemie, i flagelli come le carestie, nel mondo arcaico venivano letti come sintomi di una crisi essenziale. È essenziale quella crisi che colpisce una comunità e che minaccia di estinguerla. Così il contagio è la forma attraverso la quale il male si manifesta tra gli uomini e fa comprendere loro che qualcosa nel loro modo di vivere non funziona.
Per Girard, nella sua analisi del rapporto tra la violenza e il sacro, la crisi essenziale è una crisi di indistinzione. Se tutti desideriamo la stessa cosa, inevitabilmente prima o poi entreremo in conflitto per essa, fino a ucciderci. E quell’uccisione chiamerà altre uccisioni, finché non resterà nessuno.
Questi pensieri mi accompagnano in questa mattina di marzo, primo giorno di primavera. Ieri sera è morta una mia amica e collaboratrice: 56 anni non ancora compiuti. Stanotte la mamma di un mio caro amico e collega: asintomatica e di fatto isolata in casa da 14 giorni, alle 18.30 ha accusato fatica e difficoltà a respirare, sei ore più tardi cessava di respirare. Il virus ti raggiunge senza preavviso, ti sequestra, dichiara prima la tua morte rispetto agli affetti e poi decreta la tua morte biologica. Non c’è conforto per chi muore e non c’è consolazione per chi resta.
Questa crisi, queste morti, questo male, al netto dell’emergenza, della necessità di attivarci nella nostra cittadinanza responsabile, dell’obbligo di far fronte alla sofferenza sanitaria e dei mercati, mi sembra ci suggerisca anche altro: ci invita a riflettere su quello che siamo, sulle nostre abitudini, sul poco rispetto che abbiamo per la vita.
La crisi essenziale. Il virus, il contagio, non è il segno di un destino crudele che ci si impone in ossequio a una cieca fatalità. È figlio della violenza cui abbiamo sottoposto la natura: correla con l’inquinamento, con la concentrazione di Pm10 nell’aria, con la depressione immunitaria causata dall’aria che respiriamo e dagli alimenti di cui ci nutriamo. La crisi essenziale chiede di pensare, di riflettere sulle conseguenze dei nostri comportamenti, sulle nostre responsabilità.
La crisi di indistinzione. Viviamo in società in cui tutti desideriamo le stesse cose, omologati dalla pressione del conformismo dei consumi, spinti dal principio di prestazione. Questo comporta che si viva all’insegna della velocità, anzi dell’accelerazione. Di corsa, sempre, con l’esperienza che il tempo non basti mai. La crisi ci costringe a fermarci, ci impone un rallentamento forzato, quasi come se ci venissero create le condizioni per recuperare il senso e il valore della lentezza.
L’esperienza del sequestro. Il virus ci sequestra in casa, ci sottrae forzosamente alle nostre amicizie, ci impedisce le abituali frequentazioni. Il virus sequestra i nostri cari che si sono ammalati, non ci consente di stare loro vicini, ci fa vivere con angoscia la possibilità di non vederli più vivi. Il virus sequestra anche le nostre emozioni, sollecita la produzione di cortisolo e adrenalina, alimenta l’ansia, il panico, la paura. La crisi ci aiuta, per sottrazione, a recuperare il valore delle relazioni e degli affetti: proprio nel momento in cui ne veniamo privati, ci diviene possibile di apprezzarne l’importanza e il sapore.
Rispetto per il mondo, capacità di soffermarsi e valore delle relazioni. È questa la lezione che dovremo dimostrare di aver imparato quando tutto sarà finito. Sappiamo che sarà difficile. Perché il male rimane ben radicato tra le pieghe della nostra esistenza. Chiudevo in questi giorni l’editoriale del numero speciale che la mia Rivista “EaS. Essere a Scuola” ha dedicato all’emergenza, con le parole che concludono La peste di Camus: «Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice».
Una città è felice quando non pensa, quando popola i centri commerciali distratta dal consumo, quando non si ferma, quando è schiava della propria leggerezza, quando respinge il pensiero della morte e si dimentica del valore delle cose.