Mons. Fanelli: “la solitudine di Gesù nella Passione”

Mons. Fanelli: “la solitudine di Gesù nella Passione”

 Un disegno di salvezza e un progetto d’amore

  1. “Ora si compie il disegno del Padre, fare di Cristo il cuore del mondo”: queste parole di una delle antifona della Liturgia delle Ore ci aiutano a cogliere negli eventi della vita di Cristo un disegno di salvezza (cfr. Ef 3, 5 e ss), che è un progetto d’amore (cfr. Gv 3, 16) che abbraccia la vita di tutti gli uomini di tutti i tempi (cfr. Ef 1, 3) e che raggiunge anche la nostra generazione duramente provata dalla pandemia.

Ci raggiunge in un tempo di grande dolore per le tante vittime e di preoccupazione sia per il numero elevato dei contagi e sia per la difficile situazione in cui si trovano tante famiglie che vedono diminuire la sicurezza del lavoro (cfr. EG 192).
Con questa celebrazione – che a causa delle restrizioni imposte per contenere la pandemia stiamo vivendo con grande sofferenza senza concorso di popolo –   entriamo nei giorni “santi” della passione in cui Dio, nel suo Figlio Unigenito, muore affinché tutti gli uomini abbiano, già su questa terra, la gioia della vita vera (Gv 10, 8; 15, 11).
I giorni della passione – forse anche perché celebrati in questo contesto surreale creato dalla pandemia –   sono i giorni in cui mi ritornano alla mente, con particole stridore, le parole del folle di cui parla il filosofo Nietzsche in “Gaia scienza” che si illudeva di veder nascere dalla morte di Dio, l’uomo nuovo, il super uomo. Così dice il filosofo:
“In un luminoso mattino il folle piomba in piazza del mercato con la sua lampada gridando: «Dov’è andato Dio? Noi lo abbiamo ucciso, voi e io!… Le nostre mani grondano del suo sangue. Non sentite il lezzo della sua putrefazione? Dio è morto e resterà morto!… Chi uccide Dio diventerà Dio lui stesso!”.
Dio è morto, dice il folle! Ma le sue parole, mentre pretendono – illudendosi – di affermare e inaugurare definitivamente la morte dell’idea di Dio o della possibilità di pensarne l’esistenza, in realtà annunciano una vera tragedia legata ad un’altra verità, che l’uomo purtroppo sperimenta ogni qualvolta cancella deliberatamente Dio dal suo orizzonte: quando si cancella Dio si apre la via all’auto-distruzione dell’uomo stesso! Tanto che si può affermare con il riscontro della storia che uccidere Dio è il più terribile dei suicidi, in quanto dove Dio muore, muore l’uomo (R. Cantalamessa). Dio, infatti, muore ogni qual volta l’uomo, ogni uomo, è calpestato nella sua dignità!

La cronaca di una tragica morte e l’annuncio di salvezza

  1. L’evangelista Matteo nel lungo racconto della Passione, se da una parte è attento ad offrirci la verità storica di fatti della passione e morte di Gesù, ovvero la fedele narrazione delle circostanze della crocifissione, dall’altra vuole mostrarci che questa verità storica è strettamente legata all’annuncio di salvezza e di misericordia che sta al centro del cristianesimo. Il racconto della Passione è, infatti, il grande kerigma d’amore e di grazia manifestato da quei tragici fatti realmente accaduti a Gesù nella città santa di Gerusalemme sotto Ponzio Pilato.

Il racconto della Passione è sia annuncio del kerigma di salvezza e sia manifestazione e rivelazione del vero senso della storia; al centro del messaggio cristiano c’è la certezza che è Cristo crocifisso che guida la storia, anche la nostra storia, nel qui ed ora di questo tempo di pandemia, caratterizzato da dolore, paura e preoccupazione.
La morte di Gesù è una morte infamante, premeditata e deliberata. Gesù giunge a questa morte in una profonda solitudine: egli è solo; solo in balia di soldati, che contro di lui sfogano tutta la loro rabbia e la loro crudeltà.
Ma la crocifissione non è mai presentata dai Vangeli come un evento tragico che Gesù subisce passivamente! Egli, rappresentante dell’umanità umiliata e offesa, va liberamente verso la morte, offrendo la sua vita innocente in riscatto per tutti, quale segno di adesione totale alla volontà del Padre e di amore per l’umanità.
Gesù muore per la nostra salvezza: nessuno gli toglie la vita, ma è Gesù stesso che la offre da se stesso, perché egli ha il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo (cfr. Gv 10, 18). Il verbo offrire è la “cifra” per comprendere la sua morte. Nel suo morire Gesù realizza pienamente la sua missione di pastore di Israele: proprio attraverso l’immolazione della croce “egli si rivela come il vero pastore: “Io sono il buon pastore… Io offro la mia vita per le pecore”, dice Gesù di se stesso (Gv 10, 14 e ss.). “Ma Gesù va oltre, egli, il Dio vivente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli, di coloro che sono calpestati e uccisi” (cfr. Benedetto XVI, Omelia in occasione della santa messa per l’inizio del ministero petrino di vescovo di Roma, 24 aprile 2005).

 Sequenze di una morte violenta

  1. Il racconto della passione secondo Matteo è scandito in sette sequenze che fotografano gli snodi essenziali del drammatico e perverso gioco a cui Gesù fu sottoposto dal potere giudaico, da Pilato e – quasi in un crescendo di incoscienza – dalla folla di Gerusalemme, che lo aveva accolto osannante.

Ecco le sette sequenze:

  • I trenta danari: il prezzo di un tradimento e di una ingiustizia;
  • La cena, l’ultima, che ha sulla mensa il pane delle parole dette da Gesù, che sono più di un testamento, sono rivelazione di senso e profezia di vita nuova;
  • Il Getsemani: luogo della preghiera e del dolore, ma soprattutto luogo della decisione;
  • Il Sinedrio, teatro di un potere religioso, corrotto e compromesso, che mette in scena una cinica farsa orchestrata contro la verità e la misericordia;
  • Il tribunale di Pilato, spazio della vigliaccheria elevata a difesa di un potere di menzogna e di ingiustizia;
  • La crocifissione, la morte violenta di un uomo giusto nella solitudine e nell’abbandono più profondo;
  • La tomba, che fa paura a chi costruisce il suo potere sulla menzogna, sulla corruzione e sulla violenza.

 Gesù solo, ma libero
4. La narrazione della passione è il racconto della morte violenta e cruenta del Maestro di Galilea, uomo giusto e innocente; lasciato solo, da tutti; ma la morte di Gesù di Nazareth è una morte che, per le modalità con cui Gesù l’ha accolta ed offerta, ha cambiato il volto della morte (R. Cantalamessa). Questa è la ragione per la quale, fino alla consumazione dei secoli, la morte di Gesù verrà sempre ricordata, nonostante le nostre umane banalizzazioni e superficialità che, purtroppo, ci caratterizzano nell’approccio a questo grande mistero.
La morte di Gesù è il momento più alto di senso e di autoconsapevolezza della sua vita; quella tragica morte trova piena luce solo dalla sua stessa vita: dalle sue parole e dalle sue opere. L’uomo crocifisso è, infatti, colui che ha rivelato che Dio è Padre, che Dio è amore; quel crocifisso è l’uomo che “passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (At 10, 38), è il Maestro che con la sua parola e con le sue opere ha aperto all’umanità la porta della vera vita e della gioia piena (cfr. Gv 10, 8; 15, 11) ed ha “donato” ai suoi discepoli il grande comandamento dell’amore (cfr. Gv 15, 12).
Gesù nelle ore della passione è presentato dagli evangelisti come l’uomo lasciato solo. Egli è solo già nel momento in cui viene accolto trionfalmente dalla folla di Gerusalemme. La solitudine di Gesù è il filo rosso che attraversa tutti i momenti della passione.
Ma perché Gesù è solo?
Egli è solo innanzitutto perché sente l’amarezza del tradimento da parte dei suoi discepoli, a cui egli non ha fatto mai mancare nulla e che aveva amato sempre con la tenerezza e la premura di una madre. Infatti, Gesù viene tradito proprio da coloro che egli aveva curato come un buon pastore, che stringe al suo petto le pecore del suo gregge, specialmente quelle ferite e deboli. In questa amara solitudine Gesù si è lasciato accompagnare dalle parole del salmo: Anche l’amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno” (Sal 40, 10).
Gesù è solo, anche perché sente gravare sulle sue spalle innocenti il macigno dell’ingiusta condanna.
 Ma Gesù è solo anche perché avverte l’ingratitudine di tutti, che ha trasformato gli amici e i confidenti in avversari: “amici e confidenti, hanno levato il calcagno contro di Lui; se mi avesse insultato un nemico, l’avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio camminavamo in festa” (Sal 54,15).

 La solitudine di Gesù ci coinvolge e ci interpella

  1. La solitudine di Gesù nelle ore della Passione non è soltanto storica e psicologica, ma è anche una solitudine “mistica”, che ci coinvolge e ci interpella. Questa solitudine mistica di Gesù deve essere colmata dalla posizione che noi oggi assumiamo rispetto alla sua croce! La croce che accoglie “l’uomo dei dolori” invoca accanto sé la consolante presenza di amici veri perché è gesto supremo di amore gratuito: “ Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.  Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi!” (Gv 15, 13-15).

La vita cristiana è nella sua essenza più profonda intimità con Cristo; essa cresce e si rafforza nella misura in cui questa intimità con Gesù genera gli atteggiamenti contrapposti a quelli che hanno determinato la tragica solitudine della passione: la fedeltà, la giustizia, la gratitudine.
Questa dinamica è propria della vocazione cristiana, che come quella dei primi apostoli di Gesù (Gv 1, 35-51), è aspirazione a vivere in amicitia Christi (Beato Aelredo di Rievaulx).
La vita cristiana è anelito ed esperienza ad “abitare con il Maestro” (Gv 2, 38-39) insieme ai fratelli come in una comunità di amici. La capacità di accoglienza universale di ogni uomo e di ogni donna ne è il frutto maturo. L’accoglienza dell’altro diviene così l’incarnarsi dell’amore di Cristo mediante il quale egli plasma in loro un nuovo stile di vita (2 Cor 5, 14).
I discepoli di Gesù nel contemplare il mistero della Croce rafforzano in essi l’esperienza di sentirsi amati, perdonati e accolti da Gesù. La croce è la cattedra da cui Gesù rivela, insegna e dona la misericordia di Dio. Dalla Croce egli è per tutti e per ciascuno il Pastore buono e bello che offre la propria vita per le sue pecore e dalla quella croce i suoi discepoli si sentiranno spinti ad imitarlo in un’accoglienza disinteressata e universale tanto da essere capaci di portare, a loro volta, gli altri sulle spalle e a stringerli al petto come fa il buon Pastore (cfr. Fil 2, 1-11), con ogni pecora del gregge.

 La forza della debolezza
 Questo stile genera la cultura dell’inclusione e della cura dell’altro. In questo modo si potrà sconfiggere la contrapposta cultura dello scarto e dell’indifferenza (cfr. Lc 10, 25-37). Questa è la forza del cristianesimo, la forza della debolezza che si impone in ogni situazione come “tenerezza combattiva” (EG 85), che sgorga da un’esperienza sacramentale e mistica che porta ogni vero cristiano a dire con san Paolo “non sono più io che io vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20).
La contemplazione di Gesù che in solitudine va verso la crocifissione ci aiuta a riconoscere in lui i tratti dell’agnello mansueto che viene portato al macello (cfr. Ger 11, 19). Da questa contemplazione scaturisce la consapevolezza che “non è il potere che redime, ma l’amore”, verità che sta al centro del messaggio evangelico! “Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore” (cfr. Benedetto XVI, Omelia in occasione della santa messa per l’inizio del ministero petrino di vescovo di Roma, 24 aprile 2005).
Noi, però, soffriamo per questo stile paziente di Dio. Il suo ritardo, segno della sua infinita misericordia, noi lo leggiamo, invece, come indifferenza e disinteresse. Ma pensando e dicendo questo noi dimentichiamo che “il mondo viene salvato dal crocifisso e non dai crocifissori”: Il mondo, infatti, è redento dalla pazienza misericordiosa e salvatrice di Dio.
La “tenerezza combattiva”, che Gesù richiede ai suoi discepoli, era tutta presente nel cuore di sua Madre, che era rimasta in piedi dinanzi al dramma della Croce di suo Figlio (cfr. Gv 19, 25) senza abbandonarlo e senza piegarsi. La fortezza di Maria risplende in modo particolare nei suoi occhi ed ha la sua radice profonda nel cuore. Questa “tenerezza indomita”, che non si rassegna dinanzi al male e che risponde al male con il bene è la grazia da impetrare per tutti noi in questo giorno di gloria e di passione, nei prossimi giorni della settimana santa.
In questi giorni santi chiediamo a Dio Padre che ci doni questi atteggiamenti di Maria, la donna della nuova Alleanza, che è rimasta fedele al disegno di Dio fino al momento del sacrificio supremo della morte di suo Figlio.
Il Signore ci doni questi occhi e questo cuore: occhi che amano e cuore che vede.
Gli occhi di Maria nei giorni dolorosi della passione di suo Figlio hanno visto tutto il tradimento  nei  confronti di Gesù, tutta  l’ingiustizia che è stata scaraventata su  di Lui e tutta l’ingratitudine di cui era colmo l’amaro calice che Gesù ha dovuto bere, fino all’ultimo sorso. Ma se gli occhi di Maria hanno amato tutti, anche i crocifissori, il suo cuore, invece, già allenato a saper leggere le necessità degli altri, riusciva a leggere nell’animo di quella gente, strumento di tale martirio, il grande bisogno di perdono e di misericordia (cfr.Gv 2, 3).
Perciò, miei cari, dinanzi al grande mistero della passione di Cristo, rivelazione di un amore “senza misura”, professiamo la nostra fede con le parole di san Giovanni Apostolo:
Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna. Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato.
Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi
(1 Gv 1, -10).
 Carissimi, solo camminando con Gesù nella luce della sua amicizia, noi sperimentiamo con certezza ciò che è bello e ciò che libera. Apriamo, pertanto, come Maria, ai piedi della Croce, le porte del nostro cuore a Lui e troveremo la vera vita e la gioia piena.