L’Asia risponde all’emergenza meglio dell’Occidente

L’Asia risponde all’emergenza meglio dell’Occidente

“Una cosa è certa. L’Asia risponde «meglio» dell’occidente all’emergenza coronavirus. Questo non accade perché queste popolazioni siano «più brave», ma perché la gente è più abituata a seguire le regole, c’è un concetto diverso di libertà”. Beppe Pedron, trevigiano, referente di Caritas Italiana per l’Asia meridionale spiega così il fatto che nell’area, una delle più densamente popolate del mondo, il Covid-19 abbia fino fatto sentire i suoi effetti in maniera meno forte rispetto ad altri contesti. Pedron, dopo aver soggiornato a lungo in Asia e in particolare nello Sri Lanka, da qualche mese è tornato a vivere nella Marca con la sua famiglia. Ma continua a lavorare con quel continente ed è in grado di ragguagliare sulla situazione in India e sugli altri Paesi della Penisola indiana e dell’Indocina.

Un rapido viaggio che parte proprio dall’India, dove i contagi, sia pure non molti in relazione al numero di abitanti, stanno salendo e nei giorni di Pasqua hanno superato i 10mila, con oltre 350 morti. “Da settimane in India c’è il coprifuoco militare, tutti sono chiusi in casa. Una certa diffusione del contagio si è verificata anche perché, all’inizio delle restrizioni, molte persone si sono spostate dalla grandi città ai loro villaggi d’origine. Una cosa simile a quanto accaduto con l’esodo da Milano, ma con motivazioni diverse. Per i poveri e i lavoratori precari è dura sopravvivere nelle metropoli, in questa situazione”. Un altro aspetto che condiziona molto questa vicenda, in India, è la presenza di diverse religioni: “la Chiesa cattolica ha chiuso ai fedeli le celebrazioni. Nelle scorse settimane un focolaio è partito da un rito con molte persone promosso da un gruppo musulmano. In generale, devo dire però che il Governo ha cercato un dialogo con tutte le religioni: induisti, musulmani e cristiani sono stati tutti chiamati dal Presidente. Va detto che, forse, questo accade anche perché nel Sud del Paese la Chiesa gestisce diversi ospedali all’avanguardia”.

Difficile, però, quantificare realmente i contagi, per i pochi tamponi che vengono effettuati. Questo vale per l’India, ma anche per altri Stati: “In Nepal, per esempio – prosegue Pedron – esiste un solo ospedale pubblico in grado di fare tamponi. In Bangladesh ci sono 50 posti in rianimazione. Finora in questi Paesi non ci sono moltissimi casi, come pure in Sri Lanka, in Myanmar, in Laos e in Thailandia”. In tutti questi casi i Governi hanno chiuso tutto e stabilito molte restrizioni. Oltre all’India, le situazioni più rilevanti sono in Malaysia (oltre 5mila contagi e circa 80 morti) e in Thailandia (oltre 2.600 casi e una quarantina di vittime).

“Ma al di là dell’aspetto sanitario, ci sono due considerazioni da fare – spiega il referente Caritas -. La prima è che i tanti poveri, a causa di questa emergenza, diventano sempre più poveri. La seconda è che se questa misure si protrarranno, diventa a rischio la tenuta democratica di alcuni Paesi. In molti casi, i militari non sono garantiscono il coprifuoco, ma svolgono anche il compito che solitamente qui è demandato alla Protezione civile. La prospettiva di una progressiva militarizzazione della vita civile non è molto campata in aria”.

In questo contesto, ci sono i progetti che Caritas Italiana sta avviando. “La Cei ha stanziato un fondo di 6 milioni di euro, destinandone 5 all’emergenza sanitaria e uno all’informazione. Il bando si apre il 14 aprile. Esiste poi un finanziamento del dicastero del Vaticano per lo Sviluppo umano integrale e Caritas Internationalis. Credo che, come accennavo, la vera priorità sia quella di lavorare a progetti che riguardano le fasce deboli di questi Paesi”.

Fonte: La Vita del Popolo