di Roberto Colombo, docente alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e membro della Pontificia Accademia per la Vita.
Ogni tempo ha le sue virtù più preziose per una vita buona. Quelle cardinali – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza – non sono datate, hanno ugual valore oggi come in passato. Tra di esse, alcune che aiutano a governare la nostra vita più di altre in particolari circostanze, e vanno coltivate con maggiore cura, richiamate senza stancarsi e, soprattutto, invocate con la preghiera.
Le virtù sono popolari, per tutti. Quelle cardinali sono virtù laiche, ma anche pastorali: “I doveri” di Sant’Ambrogio, la “Regola” di San Gregorio Magno e la “Orazione” di San Giovanni Climaco – per ricordare solo alcuni testi classici del IV‒VI secolo – sono ricche di saggezza spirituale del pastore, radicata ed equilibrata proprio in questi “beni divini”, come già le chiamava Platone (cf. Leggi, I, 631c). Il termine origina dal latino virtus: “forza”, “coraggio”. Le virtù dei pastori suscitano forza nei fedeli e le virtù dei fedeli sono la forza dei pastori.
Nel tempo drammatico dell’epidemia da coronavirus, due virtù appaiono i cardini maggiori capaci di reggere la porta dell’intelligenza e del cuore e muovere la libertà, orientandola verso scelte secondo ragione e secondo fede, insieme. Sono la prudenza e la fortezza. Seguendo l’ordine dettato da Sant’Agostino (De Genesis contra Manichaeos II, 10, 13-14) e ripreso da San Tommaso (Summa theologiae I-II, q. 61), la prudenza precede la fortezza perché «è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo. […] Grazie alla virtù della prudenza applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare» (Catechismo della Chiesa Cattolica, § 1806). La prudenza non è pavidità né incertezza, ma capacità di individuare in scienza e coscienza tutto il bene possibile nelle circostanze della storia personale e comunitaria, con l’aiuto di Dio e di chi ci è prossimo.
Ma ciò a cui ci orienta il discernimento secondo prudenza non si traduce in decisioni operative ed azioni concrete – in modo particolare quando le circostanze sono più drammatiche e irte di pericoli per noi e per gli altri – senza una seconda virtù, quella della fortezza. Questa, «nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli […] La virtù della fortezza rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni. Dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa» (Catechismo, § 1808). La fortezza non è spregiudicatezza né temerarietà, ma amore per il bene dei fratelli e delle sorelle come per il proprio: chi non ha “fortemente” a cuore il proprio destino, come potrebbe amare e servire quello degli altri?
Quanti sono chiamati a prendersi cura della salute del corpo (i medici, gli infermieri e il personale socio-sanitario) e, non meno, chi è in “cura d’anime” (i vescovi e i sacerdoti) si trovano, in queste settimane, ad esercitare il loro servizio in prossimità di pazienti già affetti da Covid-19 o solamente positivi al coronavirus, oppure in quarantena perché hanno avuto contatti con i precedenti, e, dunque, esposti al possibile rischio di venire infettati. Inoltre, gli operatori sanitari e i ministri della Chiesa potrebbero a loro volta essere veicoli biologici del virus pur essendo asintomatici, in quanto sono vulnerabili all’infezione a causa delle relazioni interpersonali legate alle loro attività. Questo non è disgiunto dall’eventualità di trasmettere il Covid-19 rispettivamente ai pazienti e ai fedeli che essi assistono.
I due pericoli sopra indicati sono reali e non possono essere sottovalutati per negligenza o leggerezza. Farlo sarebbe un atteggiamento irresponsabile verso sé stessi, gli altri e l’intera comunità. Una irresponsabilità civile ed ecclesiale. Assumere una disposizione di responsabilità (secondo l’etimo, “rispondere” delle proprie azioni ed omissioni coram populo e, ultimamente, coram Deo) comporta forse la necessità che ci si astenga dai compiti sanitari o pastorali cui la professione o il ministero chiama? Nel rispondere a questa domanda ci sostengono la virtù della prudenza e quella della fortezza che, mutatis mutandis, guidano l’agire buono dei professionisti sanitari e dei ministri ordinati.
La prudenza, che orienta «a scegliere i mezzi adeguati per compier[e]» il bene (Catechismo § 1806), suggerirà quali modalità di rapporto diretto o indiretto tra operatore o pastore ed assistito o fedele risultano appropriate nella circostanza, l’indifferibilità o meno dell’azione richiesta, e quali strumenti preventivi di un possibile contagio (i cosiddetti “dispositivi di protezione individuale”; DPI) sono indispensabili, tenuto conto della rischio obiettivo, della disponibilità di DPI e della effettiva istruzione al loro impiego da parte degli operatori e dei ministri. Proprio in questi giorni si sono moltiplicate le richieste dei singoli medici e infermieri che operano nei centri colpiti dall’epidemia e delle associazioni professionali, perché siano messi a loro disposizione i DPI di qualità e in quantità adatta per la prevenzione del rischio infettivo. Sul versante pastorale si è mossa anche la Conferenza Episcopale Italiana attraverso i “Suggerimenti per la celebrazione dei sacramenti in tempo di emergenza Covid-19”.
La decisione di perseguire con deliberata volontà il bene possibile da compiere nella difficile ma ineludibile circostanza della diffusione del coronavirus nasce dalla virtù che indica la regola e la misura della condotta da seguire. Come scrive san Bernardo, «fortitudinis matrem esse prudentiam» (“la prudenza è madre della fortezza”; De Consideratione I, VIII, 9). Essere determinati nel compiere il bene che interpella qui e ora la nostra libertà significa navigare sulla rotta sicura tracciata dalla prudenza per evitare gli scogli, restando a distanza dalla Scilla della irresponsabilità personale e sociale e dal Cariddi del timore paralizzante. Il coraggio non è una virtù cieca e la forza virtuosa non è una energia senza freno, un’attività compulsiva. Di fronte agli immensi bisogni sanitari individuali e comunitari, alle esigenze relazionali e alle necessità spirituali che l’emergenza coronavirus sta generando, il coraggio vince l’inerzia a muovere i passi sui sentieri impervi di ciò che è giusto compiere nel perseguire il bene personale e comune. La fortezza impedisce di lasciar cadere le braccia, per volgere lo sguardo e instradarsi verso opzioni di ripiego, che appaio come scorciatoie meno onerose, o talvolta strumentali al disimpegno.
Il “farsi prossimo” a chi soffre per la malattia o teme per la propria vita fisica e spirituale – in un tempo nel quale vi è necessità della “medicina dell’anima” non meno di quella del corpo – è possibile per la libertà dell’uomo e la grazia di Dio. Tirarsi indietro non è degno della prima e della seconda. Non siamo eroi, ma chiamati ad essere uomini e donne fino in fondo. Non siamo santi, ma chiamati ad essere servitori fedeli nel poco o nel molto che ci è chiesto in questo momento.
Come il buon samaritano, che non passa oltre chi è ferito nel corpo e nell’anima, si ferma e si avvicina personalmente per prendersi cura di quell’uomo, senza paura di essere a sua volta vittima dei briganti (cf. Lc 10, 25‒37). Con circospezione li avrà tenuti a distanza, sapendo di essere lui pure vulnerabile nei confronti di quei nemici resi invisibili dall’oscurità. Una prudenza coraggiosa e un impeto prudente è stata la forza di quell’uomo della Samaria che il Vangelo indica come modello per i medici, i laici e il clero.