Mons. Angiuli: otto giorni dopo…

Mons. Angiuli: otto giorni dopo…

Cari fratelli e sorelle, questa domenica, ottava di Pasqua, ci aiuta a comprendere il valore della risurrezione di Cristo e il significato della domenica. Anche per questo il brano del Vangelo di Giovanni, proposto in questa nella domenica “in albis depositis”, è lo stesso in tutti e tre gli anni liturgici (A, B, C). Dire “ottava di Pasqua” significa dire che questa settimana non è un susseguirsi di giorni, ma è come fosse un solo giorno, l’unico giorno, il giorno di Cristo, che riempie tutti i giorni. La risurrezione, avvenuta di domenica, è il giorno del Signore ed è il Signore dei giorni. Cristo incontra nuovamente la comunità dei discepoli «otto giorni dopo» (Gv 20,26) la sua risurrezione. E così fino alla fine del tempo. Come l’Eucaristia, la domenica contiene sempre lo stesso mistero pur se si rinnova nel tempo secondo la legge dell’“una volta per tutte” (ephapax) che si ripresenta “ogni volta” (hosakis).

La novità antropologica, cosmologica e storica della risurrezione

Con la sua risurrezione Cristo ha impresso il suo sigillo e ha dato un nuovo e definitivo significato e valore ad ogni cosa: nasce un nuovo modo di intendere l’uomo; sorge un nuovo sguardo sulla creazione; germoglia una nuova prospettiva da cui considerare lo svolgersi della storia.

Il significato antropologico della risurrezione di Cristo si riferisce al fatto che essa è come un grembo materno che genera nuovamente gli uomini alla vita eterna dalla quale erano stati esclusi per il peccato. La nuova nascita riguarda le singole persone e l’umanità intera. «Il tempo della Pasqua e della salvezza dei primogeniti era considerato inizio dell`anno. Cosa significa ciò sul piano mistico? Che anche per noi il sacrificio della vera Pasqua segna l`inizio della vita eterna. […] Perciò chiunque è veramente consapevole che la Pasqua venne immolata per la sua salvezza, consideri inizio della sua vita il momento in cui Cristo si è sacrificato per lui». La risurrezione di Cristo è il giorno della nascita dell’uomo nuovo e l’apparire della nuova Gerusalemme. Sicché, per tutti si può dire: «L’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la tiene salda. Il Signore scriverà nel libro dei popoli: “Là costui è nato”. E danzando canteranno: «Sono in te tutte le mie sorgenti» (Sal 86, 5-7).

Il valore cosmologico della risurrezione di Cristo riguarda il sorgere e il manifestarsi della nuova creazione, dei cieli nuovi e della terra nuova (cfr. Is 65,17; 2Pt 3,11; Ap 21,1). La logica del mistero pasquale ha una portata cosmica: il limite, il dolore, l’inadeguatezza restano presenti nel creato fino a quando esso non sarà rinnovato dall’avvento di un nuovo cielo e di una nuova terra. La partecipazione del creato alla gloria del Risorto prevede un mistero di attesa e di travaglio, di morte e di resurrezione e la disponibilità ad essere trasfigurato. La portata di questo rinnovamento senza dubbio eccede le forze insite nell’universo materiale. La bontà originaria della creazione e l’assunzione della natura umana da parte del Verbo assicurano la “continuità” fisica e materiale e, nello stesso tempo, esprimono la trasfigurazione nella nuova creazione. La verità del corpo risorto di Gesù salvaguardia il mondo materiale nella sua dimensione cosmico-temporale e lo rende partecipe della vita eterna nei cieli nuovi e nella terra nuova. La prima creazione non è annullata, ma è trasformata e completamente rinnovata. «Ciò che è distrutto si ricostruisce, ciò che è invecchiato si rinnova e tutto ritorna alla sua integrità, per mezzo del Cristo, che è principio di tutte le cose».

La dimensione storica della risurrezione di Cristo, infine, implica un nuovo modo di contare il tempo. «L`anno è il simbolo del mondo, perché è come il circolo che nel suo girare, ritorna costantemente su se stesso senza trovare termine in nessun punto. Il padre del mondo futuro, Cristo, venne sacrificato per noi quasi per annullare il tempo della nostra vita passata, e farcene incominciare una nuova. Infatti, mediante il lavacro di rigenerazione, ci ha resi partecipi della sua morte e risurrezione».

La domenica, pertanto, è il metro di misura del tempo. «Ci insegna a contare i nostri giorni per giungere alla sapienza del cuore» (Sal 90,12). Contare i giorni significa riconoscersi creature fragili e limitate e non perdere tempo nel rammarico e nel rimpianto, ma in una gioiosa fruttificazione delle possibilità che esso contiene. La precarietà e fragilità della creatura umana non sono abbandonate a loro stesse e non precipitano nel nulla: c’è un rifugio dove ogni fragilità viene custodita ed è al sicuro. L’eternità di Dio è il “rifugio” sicuro dell’uomo. Anche nella condizione di “sonno” e “sogno”, la vita contiene sempre la possibilità di fare del bene o del male agli altri e a noi stessi. Alla fragilità fisica si aggiunge, pertanto, quella morale e spirituale: la morte del corpo rimanda alla morte dell’anima.

In questa situazione doppiamente drammatica, occorre coltivare la coscienza del limite. Il tempo non ritorna. Il passato passa per sempre. Lo si può ricordare, studiare, esplorare, attualizzare, ma non si può ricuperare. Non c’è nessun “eterno ritorno”. Ogni giorno è nuovo, e non la ripetizione del giorno precedente. Il numero dei giorni non è illimitato. «Contarli» significa prendere coscienza del loro limite e così comprendere l’unicità del loro valore. Il limite naturale posto al numero dei nostri giorni ne accresce infinitamente la loro preziosità.

Non bisogna sciupare il tempo nell’indolenza e nell’ignavia. Bisogna invece imparare a “contare i giorni” con cuore colmo di sapienza valorizzando ogni singolo frammento di tempo e guardando oltre il limite per scoprire le cose che durano e sono in grado di comunicare consistenza, stabilità e durata anche alla nostra vita fugace e mortale. Oltrepassare il limite per riconoscere le poche cose che non passano e possono fiorire anche dentro i nostri fragili giorni. Valorizzati dalle “cose che durano”, i nostri giorni non svaniranno nel nulla, non saranno come fumo e ombra che passa, ma acquisteranno stabilità e saranno pieni di buoni frutti.

La domenica, pertanto, non può essere ridotta a un week end. Essa assume e trasforma il tempo, divenendo essa stessa il senso e il metro di misura. Insegna così a “contare i giorni”. Il giorno del Signore, infatti, è contemporaneamente il primo, il terzo, il settimo e l’ottavo giorno. «Oggi – scrive sant’Agostino – ricorre l’ottavo giorno della vostra nascita, oggi trova in voi la sua completezza il segno della fede, quel segno che presso gli antichi patriarchi si verificava nella circoncisione, otto giorni dopo la nascita al mondo. Perciò anche il Signore ha impresso il suo sigillo al suo giorno, che è il terzo dopo la passione. Esso però, nel ciclo settimanale, è l’ottavo dopo il settimo cioè dopo il sabato, e il primo della settimana. Cristo, facendo passare il proprio corpo dalla mortalità all’immortalità, ha contrassegnato il suo giorno con il distintivo della risurrezione».

La domenica è il terzo giorno dopo la passione, ossia il giorno della risurrezione di Cristo. Ogni domenica è Pasqua. La Pasqua non è un avvenimento del passato, ma indica la contemporaneità di Cristo nel tempo. La domenica è anche il primo giorno della settimana cioè l’inizio della nuova creazione, il primo giorno del mondo nuovo, la primizia del mondo rinnovato. Inizia una nuova storia e un nuovo cammino. La domenica è il settimo giorno, il giorno del riposo, della contemplazione, della fraternità, della pace. La domenica, infine è l’ottavo, il giorno eterno, la domenica senza tramonto, l’Oggi eterno di Dio.

L’Eucaristia domenicale è l’unità del tempo e la contemporaneità dell’evento pasquale. Considerata nella sua pregnanza misterica, la domenica è il dono che Dio Padre ha fatto all’umanità. La domenica è il «giorno fatto dal Signore» (Sal 117, 24) non dalla Chiesa. Nessuno può manipolarlo e cambiarlo. Il Signore ha sancito la verità di questo giorno. A noi resta solo di accoglierlo e di farlo fruttificare.

Il giorno del Risorto

La verità della domenica consiste nel fatto che essa è il giorno del Risorto. «Cristo viene per primo perché è l’autore della sua risurrezione e della vita». La domenica non è solo un giorno, ma soprattutto una persona: la stessa persona del Risorto. Il giorno è Cristo, il suo mistero, la sua persona. «Quale giorno? mi chiedo. Quello che ha dato il principio alla vita, l’inizio alla luce. Questo giorno è l’artefice dello splendore, cioè lo stesso Signore Gesù Cristo. Egli ha detto di se stesso: Io sono il giorno: chi cammina durante il giorno non inciampa (cfr. Gv 8,12)». Il primato va dato al Signore, al Verbo incarnato, morto e risorto.

Egli è libero di «dare la vita e di riprenderla di nuovo» (Gv 10, 17-18). Supera ogni categoria temporale e spaziale e si erge nella sua infinita libertà di essere nel tempo e fuori del tempo, nello spazio e fuori dello spazio. Niente e nessuno «può trattenerlo» (cfr. Gv 20,17). Rifugge ogni schema mentale e ogni prassi. Nessuno potrà dire è qui o e là, è questo o è quello. È come il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va» (Gv 3,8). Lui è dove decide di essere. È presente dove giudica opportuno manifestarsi, secondo la sua infinita libertà e il suo immenso amore. Il Risorto è dove la fede lo cerca con la lanterna dell’amore, lo intravede dove la speranza si innesta nella fede e lo contempla dove la carità è disponibile ad accoglierlo nelle sue infinite forme di presenza.

Il Risorto si presenta sempre nei suoi contorni paradossali e antitetici. È «l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo il principio e la fine» (Ap 22,13); la radice e germoglio della stirpe di Davide (Ap 22,16 cfr. Is 11,10; Rm 15,12; Ap 5,5); il figlio e il Signore di Davide (cfr. Lc 20, 41-44; Mc 12, 35-37; Mt 22, 41-46); la stella infuocata del vespro e la stella radiosa del mattino (Ap 22,16; Ap 2, 28; 2Pt 2,19). La Veglia pasquale indica Cristo risorto come «la stella che non conosce tramonto». Da sempre, l’uomo è rimasto affascinato dalla prima stella della sera, che è anche l’ultima del mattino. Splendente come nessuna all’incalzare della notte, essa è per noi speranza e promessa del nuovo giorno: è presenza splendente e rassicurante quando le tenebre sembrano prevalere sulla luce. Dopo aver accompagnato la notte, al mattino annuncia il sorgere del sole che dona nuovamente calore e vita. «Infinito stellato, tu, la notte alla mente / che ti sta ansiosa dici che sei il mistero; / il giorno effimero ti nasconde allo sguardo, / il giorno che è nulla nell’immenso tuo, / il giorno che è tutta la vita dell’uomo. / Infinito oscuro, stellato, / solo al tuo silenzio comprende l’uomo / che tra un’eternità tu gli sarai / ancora un mistero, / sempre un mistero».

La libertà del Risorto è la forma specifica della sua bellezza: bellezza che si incarna, muore e risorge; bellezza che appare, si nasconde e nuovamente risplende; bellezza che è unità, verità e bontà; bellezza di un volto nella sua assoluta perfezione e nella sua volontaria deformazione. È il volto presente in ogni volto ed è il volto che supera in bellezza ogni altra bellezza. Il Risorto è libero anche dalla sua forma sacramentale. Cristo risorto è presente realmente e sostanzialmente nel sacramento dell’Eucaristia, ma è anche al di là delle specie sacramentali.

Da questo si deduce che, quando c’è una impossibilità invincibile di partecipare al rito eucaristico con la comunità riunita in Chiesa, Cristo risorto ci raggiunge e sta con noi. Nessuno dei morti di questi giorni è stato lasciato solo da Cristo. Non abbiamo potuto partecipare come comunità e celebrare la liturgia eucaristica. È venuta meno la manifestazione della pietas umana e del sacramento, ma non la presenza reale del Risorto. Diversa è la situazione quando si tratta di impedimenti superabili. Allora non partecipare alla Messa è veramente un atto grave. E come se Cristo si fosse presentato nel Cenacolo e gli apostoli fossero andati via, non l’avessero atteso e non si fossero fatti trovare nel giorno stabilito dal Signore. Ogni cristiano è, dunque, chiamato a riconoscere che l’immolazione di Cristo è avvenuta a suo beneficio e «la vita e la grazia gli sono state conquistate a prezzo di un simile sacrificio. Conosciuto dunque questo, si affretti a inaugurare una nuova vita, e non ritorni più a quella vecchia e sorpassata».

Il giorno del Christus totus

La persona del Risorto non indica solo Cristo, ma è Cristo e la comunità dei risorti. “Il Risorto e la comunità dei risorti” sono un’unica persona. Vi è uno stretto e inscindibile legame tra il Risorto e la sua comunità. La finale di Marco sintetizza le apparizioni (Mc 16, 9-14) e mostra che il Risorto appare, in modalità differenti, solo ai suoi discepoli. Egli è presente attraverso la fede dei suoi discepoli. C’è un circolo virtuoso tra la realtà della risurrezione di Cristo e la fede dei suoi discepoli. La verità dell’una implica la realtà dell’altra. Senza la fede dei discepoli, il Cristo risorto evapora, e senza la verità e la realtà della presenza del Risorto non è possibile il sorgere della fede. Il Risorto suscita la fede e la porta la compimento (Eb 12,2), cioè la accompagna fino al riconoscimento della sua presenza reale nel tempo e nello spazio attraverso i segni che manifestano la sua persona. Senza la fede non si realizza nessun incontro. «Per la Pasqua fiorisce l’albero della fede, il fonte battesimale diventa fecondo, la notte splende di nuova luce, scende il dono del cielo e il sacramento dà il suo nutrimento celeste».

Ogni domenica, il Risorto edifica il suo corpo e unisce a sé la sua Chiesa, in un amplesso sponsale che avvince ed esalta. Egli fonda l’unità dei credenti con lui e tra di loro. Tutto avviene per Cristo, con Cristo e in Cristo. Stringendo a sé i suoi discepoli, il Risorto è la causa della loro unione (per Cristo), il modo con il quale si modella la loro unità (con Cristo), il luogo e l’ambito dove si realizza pienamente ed efficacemente la loro unità (in Cristo). L’unità dei cristiani ha un valore niente affatto sociologico, ma cristologico, pneumatologico e sacramentate.

La domenica edifica il corpo di Cristo come sacramento di unità e di carità. «L’edificio spirituale del corpo di Cristo si costruisce nell’amore […]. Questa opera di costruzione spirituale mai diventa oggetto più appropriato di preghiera come quando il corpo stesso di Cristo, che è la Chiesa, offre il corpo e il sangue di Cristo nel sacramento del pane e del calice.[…] Quella grazia che fece della Chiesa il corpo di Cristo, faccia sì che tutte le membra della carità rimangano compatte e perseverino nell’unità del corpo. Sia questa la nostra preghiera. Sia questo il dono di quello Spirito, che è l’unico Spirito del Padre e del Figlio.[…]. L’unico cuore infatti e l’unica anima della moltitudine di coloro che erano venuti alla fede in Dio li aveva operati l’unico Spirito che è del Padre e del Figlio, e con il Padre e il Figlio è un solo Dio».

Da qui si comprende l’importanza di riunirsi in uno stesso luogo che ha un valore materiale e spirituale: il Cenacolo, figura della convocazione dei credenti nella comunione spirituale e nella casa comune. Le due dimensioni vanno di pari passo. La comunione deve assumere i volti concreti delle persone che si ritrovano in uno spazio fisico comune. La dimensione spirituale deve esprimersi in una relazione personale dove corpo e spirito sono parte dei singoli individui e dell’intera comunità. Una Chiesa che non si riunisce non è una Chiesa. Tale riunione deve assumere anche i contorni precisi di un luogo fisico ben determinato.

La concretezza del luogo diventa simbolo dell’unità spirituale non solo di quella determinata comunità, ma della raccolta di tutti gli uomini. Ogni piccola comunità cristiana è segno e sacramento di unità di tutto il genere umano. «Per la Pasqua la Chiesa accoglie nel suo seno tutti gli uomini e ne fa un unico popolo e un’unica famiglia». La comunità cristiana diventa profezia di tutta l’umanità quando vive secondo l’ideale proposto dagli Atti degli Apostoli. I credenti in Cristo erano, infatti, «perseveranti e unanimi» (cfr. At 2,42-48). Il tema dell’assiduità e della perseveranza nella preghiera è presente in molti passi delle letteratura lucana, (Lc 6,12; 18,1; 22,44; At 2,42; 6,4; 12,5). Concorde o unanime (homothymadon) significa, alla lettera, fatta con un solo cuore (con-corde) e con «un’anima» sola. «Perseverante» (proskarteroúntes) indica un’azione tenace, insistente, l’essere occupati con assiduità e costanza in qualcosa. Si potrebbe anche tradurre “tenacemente aggrappati” alla preghiera. Ciò non vuol dire pregare con molte parole come i pagani (cfr. Mt 6,7), ma chiedere spesso, non smettere di chiedere e di sperare, non arrendersi mai, non darsi riposo e non darne neppure a Dio (cfr. Is 62, 6-7). Dio ascolta sempre ed esaudisce le nostre preghiere. Non secondo la nostra volontà, ma secondo la nostra necessità. Dio è pronto ad esaudire la nostra preghiera finalizzata alla nostra salvezza.

Il modello di una comunità riunita nel giorno del Signore è quella richiamata dagli Atti degli Apostoli: «Tutti questi erano assidui unanimemente nella preghiera con alcune donne e Maria la madre di Gesù e i fratelli di lui» (At 1,14). A tal proposito, don Tonino Bello commenta: «Non occorrono molte spiegazioni per capire che l’assiduità nel cammino pastorale, la concordia nella preghiera, l’accoglienza scambievole, la solidarietà nelle scelte operative, la comunione interpersonale, la stima reciproca, il rispetto dell’altro, la misericordia vicendevole nei giudizi, la crescita comunitaria senza più fughe nella notte o nel giorno, sono valori così forti che Maria sembra star lì, nel cenacolo, a covarli con la sua tenerezza di Madre. Emerge in questa icona quella che alcuni teologi chiamano la funzione ecclesializzante della Madonna. (…) Maria è colei che ci fa sperimentare lo stare insieme nella convivialità delle differenze. Miei cari fratelli, non vanifichiamo l’impegno di Maria. Lei non ci chiede che il superamento delle divisioni, un nuovo modo di essere Chiesa, la ricucitura di tutti gli strappi, perché la tunica inconsutile del figlio preservi dal freddo le spalle del mondo».