Mons. Crepaldi: niente sarà più come prima

Mons. Crepaldi: niente sarà più come prima

L’epidemia connessa con la diffusione del “COVID-19” ha un forte impatto su molti aspetti della convivenza tra gli uomini e per questo richiede anche un’analisi dal punto di vista della Dottrina
sociale della Chiesa. Il contagio è prima di tutto un evento di tipo sanitario e già questo lo collega
direttamente con il fine del bene comune. La salute ne fa certamente parte. Nel contempo pone il
problema del rapporto tra l’uomo e la natura e ci invita a superare il naturalismo oggi molto diffuso
e dimentico che, senza il governo dell’uomo, la natura produce anche disastri e che una natura solo
buona e originariamente incontaminata non esiste. Poi pone il problema della partecipazione al bene
comune e della solidarietà, invitando ad affrontare in base al principio di sussidiarietà i diversi apporti
che i soggetti politici e sociali possono dare alla soluzione di questo grave problema e alla
ricostruzione della normalità quando fosse passato. È emerso con evidenza che tali apporti devono
essere articolati, convergenti e coordinati. Il finanziamento della sanità, problema che il coronavirus
fa emergere con grande evidenza, è un problema morale centrale nel perseguimento del bene comune.
Urgono riflessioni sia sulle finalità del sistema sanitario, sia sulla sua gestione e sull’utilizzo delle
risorse, dato che un confronto con il recente passato fa registrare una notevole riduzione del
finanziamento per le strutture sanitarie. Connessi con il problema sanitario ci sono poi le questioni
dell’economia e della pace sociale, dato che l’epidemia mette in pericolo la funzionalità delle filiere
produttive ed economiche e il loro blocco, se continuato nel tempo, produrrà fallimenti,
disoccupazione, povertà, disagio e conflitto sociale. Il mondo del lavoro sarà soggetto a forti
rivolgimenti, saranno necessarie nuove forme di sostegno e solidarietà e occorrerà fare delle scelte
drastiche. La questione economica rimanda a quella del credito e a quella monetaria e, quindi, ai
rapporti dell’Italia con l’Unione Europea da cui dipendono nel nostro Paese le decisioni ultime in
questi due settori. Ciò, a sua volta, ripropone la questione della sovranità nazionale e della
globalizzazione, facendo emergere la necessità di rivedere la globalizzazione intesa come una
macchina sistemica globalista, la quale può anche essere molto vulnerabile proprio a motivo della sua
rigida e artificiale interrelazione interna per cui, colpito un punto nevralgico, si producono danni
sistemici complessivi e difficilmente recuperabili. Destituiti di sovranità i livelli sociali inferiori, tutti
ne saranno travolti. D’altro canto, il coronavirus ha anche messo in evidenza le “chiusure” degli Stati,
incapaci di collaborare veramente anche se membri di istituzioni sovranazionali di appartenenza.
Infine, l’epidemia ha posto il problema del rapporto del bene comune con la religione cattolica e
quello del rapporto tra Stato e Chiesa. La sospensione delle messe e la chiusura delle chiese sono solo
alcuni aspetti di questo problema.
Così si sembra essere il quadro complesso dei problemi investiti dall’epidemia da coronavirus. Si
tratta di argomenti che interpellano la Dottrina sociale della Chiesa per cui il nostro Osservatorio si
sente chiamato ad offrire qualche riflessione, sollecitando altri contributi in questa direzione.
L’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, scritta nel 2009 al tempo di un’altra crisi, affermava
che “La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme
di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così
occasione di discernimento e di nuova progettualità” (n. 21).

La fine del naturalismo ideologico
Le società erano e sono attraversate da varie forme ideologiche di naturalismo che l’esperienza di
questa epidemia potrebbe correggere. L’esaltazione di una natura pura e originariamente
incontaminata di cui l’uomo sarebbe l’inquinatore non teneva e, a maggior ragione, non tiene ora.
L’idea di una Madre Terra dotata originariamente di un suo equilibrio armonico con il cui spirito
l’uomo dovrebbe connettersi per ritrovare il giusto rapporto con le cose e con se stesso è una
sciocchezza che questa esperienza potrebbe dissolvere. La natura deve essere governata dall’uomo e
le nuove ideologie panteiste (e non solo) postmoderne sono ideologie disumane. La natura, nel senso
naturalistico del termine, produce anche disequilibri e malattie e per questo deve essere umanizzata.
Non è l’uomo a doversi naturalizzare, ma la natura a dover essere umanizzata.
La rivelazione ci insegna che il creato è affidato alla cura e al governo dell’uomo in vista del fine
ultimo che è Dio. L’uomo ha il diritto, perché ha il dovere, di gestire la creazione materiale,
governandola e traendo da essa quanto necessario e utile per il bene comune. Il creato è affidato da
Dio all’uomo, al suo intervento secondo ragione e alla sua capacità di dominio sapiente. È l’uomo il
regolatore del creato, non viceversa.

I due significati del termine “Salus”
Il termine “Salus” significa salute, nel senso sanitario del termine, e significa anche salvezza, nel
senso etico-spirituale e soprattutto religioso. L’attuale esperienza del coronavirus testimonia ancora
una volta che i due significati sono interconnessi. Le minacce alla salute del corpo inducono
cambiamenti negli atteggiamenti, nel modo di pensare, nei valori da perseguire. Essi mettono alla
prova il sistema morale di riferimento dell’intera società. Esigono comportamenti eticamente validi,
denunciano atteggiamenti egoistici, disinteressati, indifferenti, di sfruttamento. Evidenziano forme di
eroismo nella comune lotta al contagio e, nello stesso tempo, forme di sciacallaggio di chi approfitta
della situazione. La lotta al contagio richiede un ricompattamento morale della società in ordine a
comportamenti sani, solidali, rispettosi, forse più importante del ricompattamento delle risorse. La
sfida alla salute fisica si pone quindi in rapporto con la sfida alla salute morale. Serve un profondo
ripensamento delle derive immorali della nostra società, a tutti i livelli. Spesso le disgrazie naturali
non sono del tutto naturali, ma hanno alle spalle atteggiamenti moralmente disordinati dell’uomo.
Non è ancora definitivamente chiarita l’origine del “COVID-19” e anche esso potrebbe dimostrarsi
non di origine naturale. Ma anche ammessa la sua origine puramente naturale, il suo impatto sociale
chiama in causa l’etica comunitaria. La risposta non è e non sarà solo scientifico-tecnica, ma dovrà
essere anche morale. Dopo la tecnica, la grave contingenza del coronavirus dovrebbe far rivivere su
nuove solide basi la morale pubblica.

La partecipazione al bene comune
Si richiede una partecipazione etica perché in causa c’è il bene comune. L’epidemia da coronavirus
contraddice tutti coloro che hanno sostenuto che il bene comune come fine morale non esiste. Se così
fosse, per cosa si impegnerebbero tutte le persone che, dentro e fuori le istituzioni, si danno da fare e
lottano? A quale impegno sarebbero chiamati i cittadini con le ordinanze restrittive se non ad un
impegno morale per il bene comune? Su quale base si dice che alcuni comportamenti in questo
momento sono “doverosi”? Chi negava l’esistenza del bene comune o chi affidava il suo
conseguimento solo a delle tecniche, ma non all’impegno morale per il bene, oggi è contraddetto dai
fatti. È il bene comune a dirci che quello della salute è un bene che tutti dobbiamo promuovere. È il
bene comune a dirci che la parola Salus ha due significati.
Questa esperienza del coronavirus sarà fatta lievitare al punto da approfondire e allargare questo
concetto del bene comune? Mentre si lotta per salvare la vita di tante persone, gli interventi di aborto
procurato non cessano, né cessano le vendite delle pillole abortive, né cessano le pratiche eutanasiche,
né cessano i sacrifici di embrioni umani e tante altre pratiche contro la vita e la famiglia. Se si riscopre
il bene comune e la necessità di una corale partecipazione in suo favore nel campo della lotta
all’epidemia, si dovrebbe avere il coraggio intellettivo e della volontà di estendere il concetto fino a
là dove naturalmente deve essere esteso.

La sussidiarietà nella lotta per la salute
La mobilitazione in atto contro la diffusione del coronavirus ha visto la partecipazione di molti livelli
talvolta coordinati talvolta meno. Ci sono dei compiti diversi che ognuno ha svolto secondo la sua
responsabilità. Una volta superata la tempesta questo permetterà di rivedere qualcosa che nella filiera
sussidiaria non abbia funzionato a dovere e di riscoprire il principio importante della sussidiarietà per
applicarlo meglio e applicarlo in ogni campo esso possa essere applicato. Una esperienza in modo
particolare deve essere valorizzata: la sussidiarietà deve essere “per” e non come difesa “da”: deve
essere per il bene comune e, quindi, deve avere un fondamento etico e non solo politico o
funzionalistico. Un fondamento etico fondato sull’ordine naturale e finalistico della vita sociale.
L’occasione è propizia per abbandonare le visioni convenzionali dei valori e dei fini sociali.
Un punto importante messo ora in evidenza dall’emergenza coronavirus è il ruolo sussidiario del
credito. Il blocco di ampi settori dell’economia per garantire maggiore sicurezza sanitaria e diminuire
la diffusione del virus mettono in crisi economica, soprattutto di liquidità, le imprese e le famiglie.
Se la crisi dovesse durare a lungo si prospetta una crisi della circolarità di produzione e consumo, con
lo spettro della disoccupazione. Davanti a questi bisogni il ruolo del credito può essere fondamentale
e il sistema finanziario potrebbe riscattarsi da tante e riprovevoli dilapidazioni interessate del recente
passato.

Sovranità e globalizzazione
L’esperienza in atto del coronavirus impone di riconsiderare anche i due concetti di globalizzazione
e di sovranità nazionale. C’è una globalizzazione che intende l’intero pianeta come un “sistema” di
rigide connessioni e incastri, una costruzione artificiale governata da addetti ai lavori, una serie di
vasi comunicanti apparentemente incrollabili. Una simile concezione si è però rivelata anche debole
perché basta colpire il sistema in un punto e si crea un effetto domino a valanga. L’epidemia può
mettere in crisi il sistema sanitario, le quarantene mettono in crisi il sistema produttivo, questo fa
crollare il sistema economico, povertà e disoccupazione non alimentano più il sistema del credito,
l’indebolimento della popolazione la espone a nuove epidemie e così via in una serie di circoli viziosi
ad estensione planetaria. La globalizzazione presentava fino a ieri i suoi fasti e le sue glorie di perfetto
funzionamento tecnico-funzionale, di indiscutibile sicumera circa l’obsolescenza di Stati e nazioni,
di assoluto valore della “società aperta”: un unico mondo, un’unica religione, un’unica morale
universale, un unico popolo mondialista, un’unica autorità mondiale. Però poi può bastare un virus
per far crollare il sistema, dato che i livelli non globali delle risposte sono stati disabilitati.
L’esperienza che stiamo vivendo ci mette in guardia da una “società aperta” intesa in questo modo,
sia perché essa si pone nelle mani del potere di pochi, sia perché altre poche mani potrebbero farla
cadere in fretta come un castello di carte. Ciò non significa negare l’importanza della collaborazione
internazionale che proprio le pandemie richiedono, ma una simile collaborazione non ha nulla a che
fare con strutture collettive, meccaniche, automatiche e globalmente sistemiche.

La morte per coronavirus dell’Unione Europea
L’esperienza di questi giorni ha mostrato un’Unione Europea ancora una volta divisa e fantomatica.
Tra gli Stati membri sono emerse dispute egoistiche più che collaborazione. L’Italia è rimasta isolata
e lasciata sola. La Commissione europea è intervenuta tardi e la Banca Centrale Europea è intervenuta
male. Di fronte all’epidemia ogni Stato ha provveduto a chiudersi in se stesso. Le risorse necessarie
all’Italia per fronteggiare la situazione emergenziale, che in altri tempi si sarebbero trovate in proprio
per esempio con la svalutazione della moneta, ora dipendono dalle decisioni dell’Unione a cui ci si
deve prostrare.
Il coronavirus ha definitivamente mostrato l’artificiosità dell’Unione Europea che non riesce a far
collaborare tra loro gli Stati ai quali si è sovrapposta per acquisizione di sovranità. La mancanza del
collante morale non è stata compensata dal collante istituzionale e politico. Bisogna prendere atto di
questa ingloriosa fine per coronavirus dell’Unione Europea e pensare che una collaborazione tra gli
Stati europei nella lotta per la salute è possibile anche fuori di istituzioni politiche sovranazionali.

Lo Stato e la Chiesa
La parola Salus significa, come abbiamo visto, anche salvezza e non solo salute. La salute non è la
salvezza, come ci hanno insegnato i martiri, ma in un certo senso la salvezza dà anche la salute. Il
buon funzionamento della vita sociale, con i suoi benefici effetti anche sulla salute, ha anche bisogno
della salvezza promessa dalla religione: “l’uomo non si sviluppa con le sole sue forze” (Caritas in
veritate, 11).
Il bene comune è di natura morale e, come abbiamo detto sopra, questa crisi dovrebbe indurre alla
riscoperta di questa dimensione, ma la morale non vive di vita propria, dato che è incapace di fondarsi
ultimamente. Qui si pone il problema della relazione essenziale che la vita politica ha con la religione,
quella che meglio garantisce anche la verità della vita politica. L’autorità politica indebolisce la lotta
contro il male, come accade anche con l’epidemia in corso, quando equipara le Sante Messe alle
iniziative ludiche, pensando che debbano essere sospese, magari anche prima di sospendere altre
forme aggregative senz’altro meno importanti. Anche la Chiesa può sbagliare quando non fa valere,
per lo stesso autentico e completo bene comune, l’esigenza pubblica delle Sante Messe e dell’apertura
delle chiese. La Chiesa dà il suo contributo alla lotta contro l’epidemia nelle varie forme di assistenza,
aiuto e solidarietà che essa sa realizzare, come ha sempre fatto in casi simili in passato. È il caso,
però, di mantenere alta l’attenzione alla dimensione religiosa del suo apporto, affinché non sia
considerata una semplice espressione della società civile. Per questo assume un valore particolare
quanto affermato da Papa Francesco che ha pregato lo Spirito Santo di dare “ai pastori la capacità e
il discernimento pastorale affinché provvedano misure che non lascino da solo il santo popolo fedele
di Dio. Che il popolo di Dio si senta accompagnato dai pastori e dal conforto della Parola di Dio, dei
sacramenti e della preghiera”, naturalmente con il buon senso e la prudenza che la situazione richiede.
Questa emergenza del coronavirus può essere vissuta da tutti “come se Dio non fosse” e in questo
caso anche la fase successiva, quando l’emergenza terminerà, applicherà per continuità una simile
visione delle cose. In questo modo però si sarà dimenticato il nesso tra salute fisica e salute morale e
religiosa che questa dolorosa emergenza ha fatto emergere. Se, al contrario, si sentirà l’esigenza di
tornare a riconoscere il posto di Dio nel mondo, allora anche i rapporti tra la politica e la religione
cattolica e tra Stato e Chiesa potranno prendere una strada corretta.
L’emergenza dell’epidemia in atto interpella in profondità la Dottrina sociale della Chiesa. Questa è
un patrimonio di fede e di ragione che in questo momento può dare un grande aiuto nella lotta contro
l’infezione, lotta che deve riguardare tutti i gradi ambiti della vita sociale e politica. Soprattutto può
dare un aiuto in vista del dopo-coronavirus. Serve uno sguardo di insieme, che non lasci fuori nessuna
prospettiva veramente importante. La vita sociale richiede coerenza e sintesi, soprattutto nelle
difficoltà, ed è per questo che nelle difficoltà gli uomini che sanno guardare in profondità e in alto
possono trovare le soluzioni e, addirittura, le occasioni per migliorare le cose rispetto al passato.