Abbiamo bisogno di gesti
Abbiamo bisogno di gesti, non solo di corpi: i corpi sono quello che resta di persone dopo che l’anima, la vita è stata trasfigurata in una dimensione che non sappiamo; i corpi sono la materia che ha i tratti delle persone ma nasconde ormai le persone e il loro mistero; i corpi sono quel composto di chimica, di materiali, di componenti disponibili per degenerare e per diventare altro. Noi abbiamo bisogno di gesti, cioè di relazioni, di abbracci, di carezze, di sguardi e di parole.
Abbiamo bisogno di gesti, di stare vicini anche senza dire niente, di guardare negli occhi anche quando gli occhi sono persi, di avvicinarci per dire le parole che non abbiamo mai detto, per piangere le lacrime che non abbiamo mai pianto, per offrire e chiedere il perdono di cui noi soli conosciamo il perché, per dire una preghiera tenendosi per mano.
Abbiamo bisogno di gesti, di segni, che restano indecifrabili per gli altri, che dicono dell’amore antico, del convivere per anni, invecchiando insieme, dell’abitudine a interpretare quello che agita l’anima anche se il volto è di pietra. Abbiamo bisogno di gesti.
Ma i gesti sono stati impediti, sono state innalzate barriere invalicabili a rendere impossibile la vicinanza, la minaccia spietata del contagio ha dissuaso dagli abbracci, dalle parole sussurrate all’orecchio, dalla carezza, dal segno di croce dell’estremo congedo. I gesti sono stati impediti e noi soffriamo lo strazio dei gesti mancati.
La comunione possibile
“Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue”. Altri segni, altri corpi, altri gesti. Il pane non è più solo pane: è cibo che trasforma i molti in un solo corpo, è gesto della consegna di sé fino al compimento.
E noi crediamo: è realmente presente il corpo che è stato crocifisso e glorificato. È presente, ma non è il corpo morto destinato alla decomposizione. È presente, è offerta di comunione. Poiché è realmente presente, noi siamo realmente in comunione: noi vivi e Gesù vivo, glorificato e coloro che sono morti, vivi in Gesù.
La nostra sensibilità, la nostra psicologia, la nostra fisicità rimangono straziate per i gesti mancati. La nostra fede, la nostra esperienza della vita e della morte di Gesù offrono la consolazione che apre alla speranza: non solo il conforto palliativo delle condoglianze, non solo il gesto compensativo di qualche supporto psicologico. La consolazione della speranza è quel dono del corpo di Gesù nel pane che spezziamo: il vero corpo per una vera comunione.
Dunque saranno vere le parole e le confidenze, il perdono dato e ricevuto, i ricordi purificati dalla misericordia, gli affetti consacrati dalla fedeltà e dalla dedizione. Saranno veri: i nostri morti non sono finiti nel nulla, nell’abisso insondabile, nella perdita irrimediabile. I nostri morti vivono di una corporeità reale e diversa. Il pane spezzato, vero corpo, ci indica la strada offerta ai credenti. Chi mangia questo pane vivrà in eterno (Gv 6,58)