È vero, è l’ora del pianto, ma è anche l’ora della compassione! Un’ora che è scoccata sulla terra all’improvviso e si diffonde con la stessa rapidità della terribile pandemia di questo tempo. La compassione è la risposta di molti e Gesù, che sta vivendo uno dei momenti più drammatici della sua esperienza terrena, la morte di un amico (Gv 11,1-45), indica questa via d’uscita alla morte, al dolore, alla paura. La compassione come chiave che apre il nostro cuore alla speranza, che apre il sepolcro, che apre il Cuore stesso di Dio.
«Signore, Colui che tu ami è malato»!
Nella casa di Betania si consuma un dramma: un giovane sta male e le sue sorelle mandano a chiamare Gesù; la malattia è mortale, eppure Gesù sembra non rispondere. Non va subito. Aspetta tre giorni: il terzo è il giorno in cui Dio agisce. «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio», dice. È malattia che l’uomo da solo non sa affrontare.
Anche noi facciamo questa esperienza. Il virus sembra distruggerci, umanamente siamo inermi: mancano strumenti scientifici, preventivi, sanitari; manca la forza di pazientare nelle limitazioni; manca in molti casi il cibo e il fantasma di una crisi economica vive già nella povertà e nella disperazione di molti, affranti dalla fame, dalla perdita del lavoro… È un terribile allarme socio-economico, su cui il Papa non cessa di richiamare tutti alla compassione della vicinanza e della carità concreta ma che interpella pure le decisioni del mondo politico, la cooperazione tra gli Stati, prima di tutto nella nostra Europa che, in questo delicato momento, è chiamata a decidere su quali politiche condivise e su quali valori rifondarsi. È Europa perché comunità; guai a dimenticarlo!
Betania significa, letteralmente, luogo dell’afflizione. E oggi siamo tutti in quella casa allo stesso modo in cui – diceva Papa Francesco alla preghiera l’altra sera – siamo tutti nella stessa barca, mentre Gesù sembra lontano, quasi disinteressato. Ciascuno, nel Vangelo di oggi, potrebbe ritrovarsi nei panni di uno dei personaggi: Lazzaro, Marta, Maria, coloro che le aiutano, le consolano… la scena è di grande afflizione ma anche di grande condivisione. C’è un dolore che unisce. C’è la compassione, il patire insieme, che è la chiave per aprire il cuore alla speranza.
«Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto»!
Quando Gesù arriva, tuttavia, la speranza sembra finita. Ma le parole di Marta, che suonano quasi come rimprovero, sono pure invocazione d’aiuto. E Gesù suggerisce la chiave per aprire il sepolcro, la compassione: «Io sono la risurrezione e la vita»! La parola sepolcro, in greco, ha la stessa radice della parola memoria. E l’espressione «Io sono…», con cui Gesù inizia a parlare, nell’Antico Testamento indica il Nome impronunciabile di Dio, è la formula solenne con cui Dio si presenta a Mosè sul monte Sinai.
Gesù ridesta la fede di Marta con la memoria. La invita a riportare al cuore la storia di un Dio che ha stretto un’Alleanza d’amore con il Suo popolo, che lo ha liberato dalla schiavitù, ha aperto il Mar Rosso, ha perdonato i suoi peccati. Un Dio che è misericordia, che ha compassione del Suo popolo! Anche per noi, il presente è tempo di memoria; forse aiutati anche dal silenzio delle nostre quarantene, è il tempo di non dimenticare come la compassione di Dio operi meraviglie nella storia della nostra vita, nella storia umana. In un frangente tragicamente segnato da generazioni di anziani sgominate da tante morti, rischiando di cancellare le nostre radici, è tempo di ricordare quanto i nostri padri ci hanno narrato. Penso ad esempio al dramma della guerra, del quale riviviamo oggi alcune sfumature, e che perdura in molte parti del mondo; è di questi giorni l’appello del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres al «cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo», al quale Papa Francesco si è unito oggi all’Angelus auspicando che l’impegno «congiunto» contro la pandemia possa portare a risolvere «i conflitti mediante il dialogo e una costruttiva ricerca della pace» e a riconoscere «il nostro bisogno di rafforzare i legami fraterni come membri di un’unica famiglia». C’è anche qui un invito alla compassione, che può aprire nuova speranza per il futuro, dopo questo tempo di pianto.
«Gesù scoppiò in pianto»
Lazzaro è morto e Gesù piange! Piange perché ha compassione, piange con chi piange. E anche il nome Lazzaro è significativo, vuol dire “Dio è il mio aiuto”. Sì. Questo pianto, questa compassione è la chiave che apre il Cuore di Dio; con essa Gesù ridona vita a Lazzaro, offrendo la propria vita. Questo gesto, infatti, confermerà la sua condanna: Gesù muore per dare la vita a Lazzaro.
La compassione offre la vita, la trasmette, la accoglie, la rispetta, la custodisce. La compassione trasforma il pianto in vita più forte della morte, rende più forti della morte: illumina, oggi, l’impegno nelle frontiere dei reparti ospedalieri, lo sconvolgente sfilare dei mezzi in cui voi, militari, trasportate e vegliate tanti fratelli morti in solitudine, i controlli accurati che dovete svolgere… ma anche le pazienti file dinanzi ai supermercati, la dedizione di coloro che lavorano per aiutarci a vivere, i gesti semplici di chi non dimentica i poveri e gli anziani, la creatività di chi sostiene e i bambini, il silenzio di chi offre la propria preghiera o la sofferenza… È la compassione che libera dall’indifferenza, genera il pianto e risponde al pianto. E apre il Cuore di Dio.
Lazzaro, se ci pensiamo bene, riprende vita quando Gesù piange. Sì, il pianto di chi amiamo ci offre la cifra della nostra preziosità, ci fa sentire vivi. «Oggi sia la domenica del pianto», ha raccomandato Papa Francesco alla Messa a Santa Marta. Piangiamo così, di amore e di compassione, nella preghiera e nell’offerta, portando alla memoria l’immagine del Crocifisso rigato dalle lacrime della pioggia, l’altra sera in una Piazza San Pietro deserta. Piangiamo con Gesù, che piange con tutti i crocifissi della storia ma che, piangendo, ridona speranza, gioia, vita. E così sia!