Cari sacerdoti, la notizia della morte di don Antonio Di Stasio tocca il cuore e ci porta a guardare al
Signore, più di quanto non stiamo già facendo in questi giorni. Nella tragedia che viviamo insieme alla nostra gente, il Signore permette che tutto accada proprio nel tempo di Quaresima, in cui il nostro sguardo si ferma con più intensità sul Crocifisso. Questo sguardo è la caparra della nostra speranza.
La parola di Dio che ascolteremo questa domenica viene in soccorso allo smarrimento umano, ancor di nuovo nelle nostre chiese vuote di popolo ma, così affollate dalla sua preghiera. Anche a noi, come ai contemporanei di Gesù, non è infatti chiesto di fermarci ad indagare sul perché del male, che affonda le sue radici in quel mistero di iniquità che solo il cuore di Dio conosce appieno. Ci è data la certezza che tutto il male – anche quello che ci sta scuotendo – è perché «siano manifestate le opere di Dio» (Gv 9,3).
Mi viene a mente quello che scriveva un autore negli anni della mia adolescenza: «Ognuno di questi miracoli lascia una piaga in fondo all’anima di Gesù, perché ognuno testimonia come alla nostra grama fede la sua parola non è bastata» (L. Santucci, Una vita di Cristo).
A noi, cari sacerdoti, è richiesto di rendere testimonianza della nostra fiducia nella Parola di Dio, anche se i segni non ci sono o tardano a venire. È per questo che non rinunceremo a celebrare domenica – la quarta di Quaresima – nella gioia, come ci chiede la liturgia; perché sappiamo che il seme della Pasqua è stato già piantato da Dio nella terra silenziosa e dolorante ed è pronto ad esplodere.
Vi ringrazio per i segni di vicinanza e di prossimità che state vivendo con i nostri fedeli preoccupati, forse smarriti. Voglio però ricordarvi la bellezza di un’altra vicinanza e di un’altra prossimità, che è forse quella di cui ciascuno di noi ha maggiormente bisogno: mi riferisco a quella che viene da una comunione – approfondita, riscoperta, ritrovata – tra noi sacerdoti. Sappiamo tutti quanto c’è bisogno di una famiglia e di una casa: la famiglia, la dimora, di ciascuno di noi è il presbiterio.
Se i nostri limiti umani conservano ancora il germe di qualche divisione, incomprensione reciproca, o di qualche malinteso, è questo il momento di superarlo! E non solo perché la nostra gente è confortata dal profumo della comunione tra i suoi preti, ma soprattutto perché nessuno di noi può pensare seriamente di reggere il peso di questo momento senza una vicinanza affettiva ed effettiva tra di noi. Tutti con i
nostri limiti, i nostri difetti e i nostri peccati, tutti diversi, ma ciascuno egualmente chiamato, scelto e donato dall’unico Amore di Dio, in una vocazione di cui forse proprio adesso avvertiamo di più il peso della divina esigenza.
In questo senso, vi propongo due strade semplici da seguirsi. La prima è l’impegno a individuare, nella preghiera, ogni giorno, un confratello che non sentiamo da tanto, o che magari sappiamo più solo o più in difficoltà, o – di più – un confratello con cui nel passato c’è stata qualche incomprensione, e a scegliere una forma di prossimità da vivere nei suoi riguardi: a volte – lo sapete – è basta una telefonata con tono sorridente e incoraggiante. La seconda è, invece, l’impegno ad unirci spiritualmente
nella preghiera dell’Angelus, dalle nostre case o dai luoghi del nostro ministero, affidando alla Madonna tutti i confratelli e chiedendo per ciascuno di noi la forza e la gioia di rinnovare quotidianamente il nostro ‘sì’ al Signore, pur se facciamo talvolta fatica a portarne il peso.
La Madonna aiuterà la nostra opera di comunione, Lei che è stata donna di relazioni autentiche e piene. Al suo cuore di Madre affidiamo don Antonio, di cui conosciamo tutti la devozione mariana: vi raccomando di celebrare, appena potrete, in suffragio della sua anima.