Mons. Moraglia: “vera laicità è riconoscere il posto di Dio nella società”

Mons. Moraglia: “vera laicità è riconoscere il posto di Dio nella società”

Stimate autorità, cari confratelli nel sacerdozio, fraternità cappuccina, fratelli e sorelle, la terza domenica di luglio, a Venezia, si celebra la festa del Santissimo Redentore ricordando l’evento che, in modo drammatico, segnò la città e che oggi – in tempo di Covid 19 – riviviamo con particolare intensità. Questa festa è, infatti, legata al voto con cui il Senato della Repubblica decise di affidarsi alla misericordia di Dio per sconfiggere la pandemia del 1575-76 che, in città, seminò ovunque morte.

Quest’anno il nostro ricordo è particolarmente vivo, perché abbiamo fatto e stiamo tuttora facendo un’esperienza simile e così l’impotenza e la fragilità dei nostri avi si sono di nuovo manifestate, seppur in modi differenti. Oggi riscontriamo ancora come l’uomo debba sempre fare i conti con i suoi limiti, nonostante i progressi della scienza: l’uomo è creatura e rimane fragile.

La pandemia ci ha segnati come singole persone e come comunità, ci ha toccato dentro e per chi non si è sottratto è stato possibile ripensare il proprio stile di vita. Il lockdown è stato vissuto in modi diversi; ha portato alcuni a riflettere criticamente sulla situazione, altri semplicemente a subirla.

La solennità del Redentore ricorda il mistero della salvezza che, per il cristiano, ha un solo nome: Gesù. Il Risorto è la risposta al grido che, in questi mesi, è riecheggiato in ospedali, residenze per anziani, reparti di terapia intensiva, luoghi di sofferenza ed anche fatica per malati, medici e infermieri, i cui volti stanchi e disfatti sono vivi nella nostra memoria.

L’uomo, in ogni momento, può ammalarsi e venir meno; in un solo istante, si può passare da star bene a non riuscire a compiere i gesti necessari del vivere.

Anche nel tempo della tecnoscienza l’uomo non può sentirsi assolutamente garantito; la precarietà appartiene all’uomo e gli ricorda chi è, nonostante i sogni d’immortalità puntualmente smentiti dai fatti.

Qui il libro dei salmi ci aiuta: nel Salterio, infatti, vi sono le preghiere che l’uomo innalza a Dio, suo Signore, Creatore e Padre, nelle varie situazioni della vita. I salmi esprimono gioia, lode, ringraziamento, stupore, angoscia; allo stesso tempo, plasmano l’uomo e lo raccontano, sono preghiera e Parola di Dio e, quindi, ci mettono a parte del pensiero stesso di Dio.

Soffermiamoci sui salmi, che valgono più di tante analisi psicologiche e ci dicono chi è l’uomo, da dove viene, dove va e cosa lo attende.

Nel salmo 103 l’orante si rivolge a Dio e gli confida il sentimento della sua precarietà, quella stessa precarietà che, in questi giorni, abbiamo toccato con mano quando il virus ha messo in ginocchio interi territori e nazioni e, alla fine, l’intero pianeta. Scienza e tecnica, anche le più avanzate, non sono state capaci di tutelarci, se non solo fino ad un certo punto e si è stati costretti alla resa.

I versetti del salmo 103 esprimono quanto detto: “L’uomo: come l’erba sono i suoi giorni! Come un fiore di campo, così egli fiorisce. Se un vento lo investe, non è più, né più lo riconosce la sua dimora. Ma l’amore del Signore è da sempre” (Salmo 103,15-16).

Le certezze, su cui facevamo affidamento, sono venute meno; se pensavamo di controllare tutto, Covid 19 ci ha ridestato bruscamente da tale sogno.

I salmi – frutto di una cultura prescientifica – esprimono tuttavia una sapienza che, nonostante il passare del tempo e i progressi dell’uomo, rimane attuale perché dice la Verità e la Sapienza di Dio.

Il salmo 144 esprime il grande stupore dell’uomo quando vede che               Dio si china su di lui, se ne prende cura, nonostante la sua piccolezza; in realtà, proprio qui, l’uomo appare in tutta la sua dignità e grandezza in quanto pensato e amato da Dio che ha mentre lo crea pensa la futura umanità di suo Figlio, Gesù di Nazareth, il Verbo incarnato.

Lo stupore dell’uomo si fa incontenibile quando vede che Dio, come Padre, si prende cura dell’uomo: “Signore, che cos’è l’uomo perché tu l’abbia a cuore? Il figlio dell’uomo, perché te ne dia pensiero? L’uomo è come un soffio, i suoi giorni come ombra che passa” (Salmo 144,3-4).

 I salmi che formano il libro del Salterio – in ebraico il Libro delle lodi – si susseguono in ordine “sparso”, anche se la prima parte del Salterio parla preferibilmente dell’uomo nella sofferenza e nella prova, mentre la seconda più nella lode e nella gioia.

Già la tradizione giudaica vedeva nel libro del Salterio l’esperienza religiosa per eccellenza, quella che un giorno avrebbe vissuto il futuro Messia. I salmi ripercorrono tutto l’Antico Testamento in forma di preghiera; in essi intravediamo i misteri della vita di Gesù.

Sant’Agostino dirà, con espressione felice, che nell’Antico Testamento si “nasconde” il Nuovo e nel Nuovo si “rende manifesto” l’Antico; riscopriamo, così, l’intera storia della salvezza. E l’Antico Testamento è lunga attesa di Gesù o – come dice san Paolo –  preparazione alla pienezza dei tempi.

Nel Salterio, poi, non ci troviamo soltanto di fronte alla Parola di Dio ma a quella parola che Dio vuole che l’uomo gli rivolga.

Ma chi è il vero orante del Salterio? Chi prega i salmi in modo compiuto? Rispondere significa svelare il senso ultimo del Salterio. E qui ritorna quanto ha detto Agostino: il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico, l’Antico svela il Nuovo e Gesù è il senso vero e ultimo di tutta la Rivelazione. Secondo la lettera agli Ebrei è il vero ed eterno Sacerdote, il solo che può guidare nel tempio del cielo, il primo e l’ultimo, il Principio e la fine di tutto.

I salmi sono dunque preghiera messianica, ossia del Messia; i cristiani vi scorgono l’annuncio e la prefigurazione di Cristo Salvatore che, soffrendo, si dona come il giusto perseguitato che entra nella gloria.

È significativo che le ultime parole pronunciate da Gesù in croce siano quelle del salmo 21, non un salmo qualsiasi; è il salmo che s’ispira ai “canti del servo di Jahvè” e alle “confessioni di Geremia”, il profeta che più degli altri assomiglia al Messia.

La festa del Santissimo Redentore – in quest’anno così particolare e faticoso – risvegli nelle nostre comunità un vivo senso di Dio a partire proprio dalla percezione del limite e della fragilità umana e, quindi, una solidarietà che esprime la fede e, poi, diventa scelta sociale e politica attraverso la valorizzazione del principio di sussidiarietà che riconosce e promuove le aggregazioni dei cittadini.

Per l’uomo riconoscere il proprio limite e la propria fragilità non significa esser meno uomo, ma percorrere la strada che lo conduce ad essere veramente uomo, alla gioia di “scoprirsi” creatura; accettare il proprio limite diventa cifra di una sana e matura umanità.

Pascal, l’acuto filosofo e scienziato, si chiedeva: “Cos’è l’uomo nella natura? Nulla in confronto all’infinito… tutto in confronto al nulla, un qualcosa di mezzo tra nulla e tutto. Infinitamente lontano dal poter comprendere… La fine delle cose e il loro principio sono invincibilmente legati in un segreto impenetrabile…, ugualmente incapace di scorgere il nulla da cui è tratto, l’infinito da cui è inghiottito…”.

L’uomo è persona, ossia essere “in relazione” e la città è prodotto della persona. La nostra amata città appartiene ai veneziani ma – per la sua unicità – è patrimonio del mondo. Dopo l’ultima “acqua granda” dello scorso novembre e l’emergenza Covid 19, ancora in atto, è necessario mettere in campo idee capaci di proporre un nuovo modello di convivenza; è una sfida affascinante.

Papa Francesco, nell’enciclica Laudato si’, ci indica una strada: “Insieme al patrimonio naturale, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale, ugualmente minacciato. È parte dell’identità comune di un luogo e base per costruire una città abitabile. Non si tratta di distruggere e di creare nuove città ipoteticamente più ecologiche, dove non sempre risulta desiderabile vivere. Bisogna integrare la storia, la cultura e l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’identità originale. Perciò l’ecologia richiede anche la cura delle ricchezze culturali dell’umanità nel loro significato più ampio… È la cultura non solo intesa come i monumenti del passato, ma specialmente nel suo senso vivo, dinamico e partecipativo, che non si può escludere nel momento in cui si ripensa la relazione dell’essere umano con l’ambiente” (Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, n. 143).

Venezia può diventare un importante laboratorio che, dalla sua storia, trae spunto per progettare un futuro che risponda alle esigenze della sua natura fragile, del suo patrimonio artistico culturale e, insieme, la renda vivibile a misura d’uomo; una città per un futuro nel quale natura, cultura, reddito e cittadinanza sappiano convivere a partire dal bene comune che non è l’aspettativa o i desiderata di qualche gruppo o lobby, ma è il bene di tutti e di ciascuno.

In questo la Chiesa che è in Venezia si deve sentire interpellata ed essere capace di proporre una visione in cui l’uomo, aperto a Dio, sia posto sempre al centro. Vera laicità è riconoscere il posto di Dio anche nella società civile, sapendo andare oltre i desideri e le aspettative dei singoli.

Il Signore Gesù, il Santissimo Redentore, che ci rivela la verità su Dio e sull’uomo, ci aiuti a far sì che l’uomo – abitando la città terrena – viva nella consapevolezza di come il Regno di Dio sia un dono che viene dall’alto e si edifica, giorno dopo giorno, imprimendo nella città terrena un volto più umano, ossia più corrispondente all’uomo, a partire dalle sue fragilità materiali e spirituali.

Impariamo dalla Vergine Maria, modello di Colei che sta dinanzi al Redentore, con gli occhi rivolti a Lui per cogliere ogni suo cenno ed attendere in dono la Sua misericordia di cui siamo tutti mendicanti. Quello che era abituale per Maria deve diventare ora familiare per ciascuno di noi: “…come gli occhi dei servi attendono un cenno dai padroni, come gli occhi di una schiava fissano la mano della padrona, così i nostri occhi sono rivolti a Te o Signore, nostro Dio, e attendono la tua misericordia” (Sal 123).