Sarà impossibile dimenticare la Quaresima dell’anno del Signore 2020. Per il dramma del coronavirus, per il numero vertiginoso di sorelle e fratelli morti, per la fatica sproporzionata a cui sono sottoposti i nostri sanitari, le forze dell’Ordine e altre categorie di lavoratori, per le molteplici ristrettezze a cui ci ha costretti il contagio. Per l’inevitabile tracollo economico che, nonostante tutte le cifre stanziate dalla Unione Europea e dall’Amministrazione statale, si profila, impietoso e aggressivo, all’orizzonte. Eppure questa, come ogni Quaresima, è tempo opportuno di cambiamento, di conversione, di rivisitazione saggia e responsabile di quegli stili di vita che non danno più vita alla vita, che impediscono lo scorrere della linfa, del sapore e del senso. Si vive se si cambia. Si vive se si dismettono abitudini logore e logoranti, maquillage esistenziali, contraffazioni relazionali, letali miscele affettive. Si vive se si dà vita ad altri, se ci ri-conosciamo figli dello stesso Padre e fratelli tra noi. Padre sempre, sempre figli vi scrivevo all’inizio della Quaresima. Sì, “questo è il tempo favorevole, questa è l’ora della salvezza” (2Cor 6, 2). È per noi una grazia da non sperperare, un appello a frenare la frenesia della corsa che pare aver asservito piedi, cuore, anima e tempi.
Questo essere messi in corner dal Covid-19 è, per tutti, una tranvata mozzafiato. E, ironia della sorte, è toccato proprio ad una generazione come la nostra, ossessionata dalla visibilità e sospinta famelicamente a guadagnare spazi sociali e mediatici sempre più ampi e sempre più “condivisi”, ad essere posta al tappeto da una invisibilità come è il virus. Un’invisibilità mortifera. “Un’invisibilità che ha scatenato un’emergenza capace di far esplodere tutte le contraddizioni e le ingiustizie dei nostri assetti sociali, che mal compongono i diritti e le esigenze tra i forti e i deboli. Il virus viene a ricordarci che siamo tutti esposti al tocco della morte” (G. Solonia). Ma, questa presente, potrebbe essere anche un’occasione imperdibile e preziosa per ripensare il nostro approccio alla vita. Un’occasione d’oro, questa, per re-imparare a vivere non a scartamento ridotto, ma in pienezza. Il pulsare asfittico di troppe vite, fa male al cuore per l’immane potenzialità di bene, di vero, di bello, di unico, sperperata. Il panico acceso in ciascuno di noi da questo virus, non ci avrà terrorizzato invano se, umilmente, riusciremo a scorgere e a chiamare per nome quei benefìci virali riconsegnatici dalla pandemia. Ne intravvedo quattro, che desidero affidare alla comune riflessione delle nostre comunità.
Un primo beneficio virale è l’accresciuta capacità di ap-prezzare realmente il tempo. Riapprendiamo che il tempo, appunto, è temporale, caduco, limitato e non infinito. Che c’è una indisponibilità del tempo ad essere diluito, allungato e decurtato. C’è, nel tempo, una certa qual signorìa con cui, ogni umano, deve fare i conti. Uno dei paradossi di questa nostra generazione è che diciamo di “non avere tempo” e, tuttavia, non sappiamo come ammazzarlo! In un’impalcatura di vita, dove il produrre e il consumare sono gli architravi, la frenesia riesce a corrodere intimità domestica, relazioni, lavoro, ferie e feste. Sappiamo davvero cosa farcene del tempo? Ma possiamo farcene qualcosa se sappiamo sul serio della vita, della nostra vita… Questo tempo “sospeso” che stiamo vivendo, forse, può riuscire a lasciarci in eredità qualche frammento di sapienza preziosa circa il tempo e il suo stolto sciupìo.
Un secondo beneficio virale è una migliore focalizzazione dell’alterità. O torniamo a imparare che si vive realmente solo se si accetta la sfida dell’alterità e la necessaria trasformazione del limite, o il disfacimento della vita non solo è già decretato, ma è già in atto. Pensare al proprio piccolo orto infischiandosene di chicchessìa, è una regola che va infranta: non subito, di più. Nella scultorea lingua latina si direbbe: istante, instantius, instantissime: subitamente, con maggior velocità, più che istantaneamente! Circa l’accoglienza dell’alterità, lo ricordavo proprio a Natale scorso (quando già, sotto altri cieli, il virus serpeggiava): «“Non dimenticate la philoxenìa: alcuni, praticandola, senza saperlo, hanno accolto degli Angeli” (Eb 13,2). Eppure, anche in casa cristiana, ancora quanta amnesìa della philoxenìa: l’amore per chi è “straniero”, altro – in qualsiasi modo – è strangolato dall’amnesìa del Dio vestito di carne, di Dio che si fa carne in Gesù. Smemoratezza di Colui che ha vestito l’assoluta estraneità da sé. “Alcuni… senza saperlo… Angeli”. Sotto traccia è indicato Abramo che non è nominato (cf Gn 18,1-16). Nel testo risuona un volutamente anonimo “qualcuno” che, accogliendo la stranierità, gli è dato di incontrare “Angeli”. Gli è dato di incontrare Dio. Questa è la regola vera della vera ospitalità: qualcuno accoglie qualcun altro. Senza biglietto da visita. Un puro atto di fede senza garanzie. Un rischio e, insieme, il manifestarsi di una relazione che può assurgere a rivelazione. Ap-prezzare chi è altro-da-me, altro-che-è-con-me, altro che consegna me-a-me-stesso. Altro come limes o Altro come limen? Altro come frontiera fortificata, limite invalicabile, estranea ostilità o Altro come soglia che concede passaggio, condizione di rapporto. Rivelazione? Gesù di Nazaret, Cristo e Signore, per noi si è fatto Limen e abbiamo conosciuto il Padre. Come non augurarci vicendevolmente, permanendo nel Limen, la gioia mai consumata di accogliere ogni relazione come rivelazione?».
L’appello che prepotentemente preme da questo momento così difficile mi pare scaturire proprio da quei gesti familiari, umanissimi e per noi indispensabili, che oggi ci sono interdetti o imperati: non toccarsi, non darsi la mano, tenere i guanti, non baciare, non abbracciare, tenere distanza, infilarsi la mascherina, rifugiarsi dietro il plexiglas… Sono proprio queste “mosse tattiche” – ora indispensabili! –, a dar voce all’esigenza di prossimità che preme in cuore e a farci fare un sincero mea culpa, per tutte quelle volte che abbiamo dato per scontato questi gesti e li abbiamo usati e/o abusati. Scriveva nei giorni passati la psicoterapeuta Francesca Morelli: “In un momento storico in cui certe ideologie e politiche discriminatorie, con forti richiami ad un passato meschino, si stanno riattivando in tutto il mondo, arriva un virus che ci fa sperimentare che, in un attimo, possiamo diventare i discriminati, i segregati, quelli bloccati alla frontiera, quelli che portano le malattie. Anche se non ne abbiamo colpa. Anche se siamo bianchi, occidentali e viaggiamo in business class”.
Un terzo beneficio virale è la reciprocità (ri)scoperta. È indubbio che, il Covid-19, pur nella sua devastazione incontrollabile, ci ha riconsegnato una regola aurea dell’umano: la reciprocità, l’essere comunità, la responsabilità-per-altri. Non si può procedere nella vita senza fare memoria che, dalle mie azioni personali dipende la sorte di altri, di tutti gli altri e dalle azioni di altri, dipende la mia. La capacità di cogliere l’altro come vettore di valore identico rispetto a se stessi, resta l’unica manovra possibile per sciogliere questa impiccagione esistenziale. Accogliere l’altro con questa reciprocità, dà vita a relazioni dove la diversa identità è ac-colta come di pari valore alla propria, come bene e come dono. È solo nell’offrire effettivo spazio alla complementarità dell’altro, accolta come indispensabile, che la propria identità può apparire ed essere realmente tale, mia, unica; è solo rinunciando a violentare l’altro riducendolo (etimologia quanto mai eloquente) a propria immagine, che le relazioni diventano patto condiviso, alleanza leale, accordo di interscambio, mutuo riconoscimento. È questo vis-à-vis che dà vita a relazioni di reciprocità, abili alla collaborazione, alla corresponsabilità, alla condivisione. Detto altrimenti, è l’unico faccia a faccia che possa permettersi di stare assieme con gratuità.
Un quarto beneficio virale è ri-abitare la casa. Il mantra massmediatico che ci trapana le orecchie è “state a casa!”. A ben pensarci, in un tempo come il nostro, così complesso, frammentato, globalizzato e movimentato, dove l’imperativo non-detto (ma quanto mai indiscusso e indiscutibile!) è uscire da casa, andare fuori, ci viene ripetuto in tutti i modi che, per vivere, è necessario restare in casa. Non più uscire/fuggire ma abitare/dimorare. Non più estroflettersi ma con-venire/co-esistere. Una cosa è certa: bisogna rifarsi compagni, vale a dire “condividere-insieme-pane”, ogni pane, ogni nutrimento, ogni cosa che ri-crea, che dà vita, che sazia. E questo dentro una casa che non è, e non può essere, albergo, ristorante o convivialità part-time. Dimorare e abitare, nel senso appena detto, può spingerci tutti a ripensare gesti, comportamenti, spazi, prossimità e distanze della nostra comunicazione, sia verbale che non verbale. Questa nostra generazione, credo, è chiamata a creare nuove modalità di vicinanza, di cura, di co-abitazione tra genitori, figli, fratelli, partner. Il lascito buono di un virus cattivo è semplice: ridiventare “com-pagni” condividendo il pane della vita, come rinvenimento di quel calore che è fonte sorgiva di ogni altro genuino calore.
Chiudo consegnandovi una poesia uscita dalla bella penna di Mariangela Gualtieri, Nove marzo duemilaventi. È eloquente come solo la poesia sa esserlo:
“Questo ti voglio dire ci dovevamo fermare. Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti ch’era troppo furioso il nostro fare. Stare dentro le cose. Tutti fuori di noi. Agitare ogni ora – farla fruttare. Ci dovevamo fermare e non ci riuscivamo. Andava fatto insieme. Rallentare la corsa. Ma non ci riuscivamo. Non c’era sforzo umano che ci potesse bloccare. […] Adesso siamo a casa. È portentoso quello che succede. E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano. Forse ci sono doni. Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo. C’è un molto forte richiamo della specie ora e come specie adesso deve pensarsi ognuno. […] Una voce imponente, senza parola ci dice ora di stare a casa, come bambini che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa, e non avranno baci, non saranno abbracciati. Ognuno dentro una frenata che ci riporta indietro, forse nelle lentezze delle antiche antenate, delle madri. Guardare di più il cielo, tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta il pane. Guardare bene una faccia. Cantare piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta stringere con la mano un’altra mano sentire forte l’intesa. Che siamo insieme. Un organismo solo. Tutta la specie la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo. A quella stretta di un palmo col palmo di qualcuno a quel semplice atto che ci è interdetto ora – noi torneremo con una comprensione dilatata. Saremo qui, più attenti credo. Più delicata la nostra mano starà dentro il fare della vita. Adesso lo sappiamo quanto è triste stare lontani un metro”.