Cari fratelli e sorelle, cari confratelli, è un’insolita Domenica ‘laetare’, quella di questa Quaresima che viviamo, segnata più da paura e da sofferenza. Ma forse proprio per queste ragioni, l’invito alla gioia, assume ancora di più un senso, per non smarrire la meta a cui ci invita a guardare la Quaresima, che è la gioia della Pasqua, della risurrezione. Ci mettiamo in ascolto della Parola di Dio. La prima lettura ci ricorda l’unzione regale del giovane Davide da parte del profeta Samuele. L’unzione è il segno che Dio sceglie e manda, ma anche guida e protegge. Dio, contrariamente all’uomo, non si lascia ingannare dalle apparenze: Dio sceglie il piccolo e non il grande; Dio sceglie la bellezza del cuore più che la forza del corpo. L’unzione è il segno della paternità di Dio che tocca anche la nostra vita in diverse tappe sacramentali: nel sacramento del Battesimo e della Confermazione come dell’Unzione dei malati, nel sacramento dell’Ordine. L’iniziazione cristiana, la sofferenza, la ministerialità ordinata sono tre momenti segnati da una unzione che ci ricorda la presenza di Dio nella nostra vita, ma anche nel nostro cammino, aprendoci gli occhi sulla verità, sulla via, sulla vita. Per questo, diventa beato chi cammina nel Signore, chi custodisce il dono dell’unzione, chi custodisce la grazia, chi non tradisce il ministero. Anche il miracolo della guarigione del cieco, da parte di Gesù – ricordato nella pagina evangelica – richiama l’unzione, con fango, da parte di Gesù: il segno richiama la presenza di Dio nella storia, la sua prossimità alle persone, soprattutto ai malati e agli ultimi. I farisei non leggono oltre il segno, non riconoscono questa presenza messianica del Signore, ma si fermano a considerare il tempo del riposo come più importante del gesto della salute, la loro conoscenza, il loro ruolo, anziché l’evidenza dei fatti, a cui li richiama il cieco guarito.
Anche noi oggi siamo chiamati, in questo tempo di malattia e di incertezza, a chiedere al Signore la guarigione, a riconoscere la nostra debolezza, il bisogno della sua presenza, di essere unti e toccati dalla sua grazia, di metterci alla sequela di Gesù come il cieco. Questo chiede a ciascuno di noi un gesto di grande umiltà, che è il primo atteggiamento che accompagna la fede, e che ci porta a scegliere – come ricorda Paolo agli Efesini – “la bontà, la giustizia, la verità”. Significa superare quella mentalità pelagiana o semipelagiana – come ricorda Papa Francesco nell’esortazione Gaudete et exsultate – che porta a ritenere che tutto si può fare grazie alla volontà umana: “Si pretende di ignorare che «non tutti possono tutto» – scrive il Papa – e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia. In qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare quello che puoi e «a chiedere quello che non puoi»; o a dire umilmente al Signore: «Dammi quello che comandi e comandami quello che vuoi»” (G.E. 49). La considerazione più di se stessi che del nostro essere creature crea ansia, paura, incapacità e allontana la responsabilità di gioire per la presenza del Signore e del camminare con Lui. Invece, “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù – scrive Papa Francesco all’inizio dell’esortazione Evangelii Gaudium – . Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia” (E.G. 1). Se siamo “nella luce del Signore” e ci “comportiamo come figli della luce”, non partecipando alle “opere delle tenebre”, cioè non vivendo nel peccato – ci ricorda ancora l’apostolo Paolo – risorgeremo dai morti e Cristo ci illuminerà. In questo tempo buio diventa quasi più importante la contrizione rispetto all’assoluzione, perché comunque il Padre, ricco di misericordia, è sulla porta di casa e ci aspetta e ci vede per primo.
Cari fratelli e sorelle, la sofferenza di questi giorni, che ci ha portato a vivere anticipatamente e anche più profondamente il Venerdì Santo, non può spegnere la gioia del vangelo che la fede ha posto nel nostro cuore e aiutarci a camminare con il Signore. La novena che oggi concludiamo al Crocifisso di S. Luca, nel giorno anniversario del suo ritrovamento, ha voluto da una parte fare nostro il grido umano di Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, ma al tempo stesso ha rafforzato la consapevolezza del bisogno di affidarsi al Dio, come ha fatto Gesù: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”. Continuiamo in questa Quaresima a guardare al Crocifisso, al suo sacrificio che nell’Eucaristia assume tutta la sua contemporaneità, per noi e per tutti. Al tempo stesso, la presenza del Signore Risorto nella nostra vita ci aiuti a non spegnere la gioia del Vangelo, ma a trovare nuovi gesti e forme rinnovate, in questo tempo di sofferenza e di privazione, per annunciarla a tutti. Così sia.