“La prima grande lezione che ci viene dalla pandemia della SARS-2 è che abbiamo bisogno tutti – politici, scienziati, uomini d’affari, persone comuni – di un grande bagno di umiltà. Troppo a lungo si è coltivata l’illusione che le nuove tecnologie convergenti potessero assicurarci uno sviluppo lineare, senza limiti seri di sorta. Sarebbe bastato aspettare. Si consideri, ad esempio, le promesse del progetto transumanista, incardinato presso l’University of Singularity in California, di arrivare entro il 2050, a portare la durata della vita umana fino a 120 anni – secondo una dichiarazione recente del prof. Kurzweil. Nel pieno e convinto riconoscimento del fondamentale ruolo della scienza, occorre ammettere che la scienza è altrettanto erratica quanto le altre pratiche umane. I miti sono sempre pericolosi, quale che sia l’ambito in cui prendono forma. Si continui pure ad investire sull’intelligenza artificiale, senza però dimenticare l’intelligenza dell’umiltà” (Stefano Zamagni, Factum e Faciendum).
In questo lunghissimo tempo di riflessione, vuoto solo all’apparenza, mi sono soffermato spesso, a ritagliare il significato delle parole più semplici, abbandonandomi allo stupore della loro complessità. Ho compreso quanto sia difficile, confinare ad una definizione etimologica, il senso composito del valore che le parole assumono, in un abito accuratamente contestualizzato. Così, ho rispolverato l’intimità di significanti, adoperandomi nella meraviglia. Tra queste meraviglie, ho scorto l’umiltà, rileggendo dei passi importanti del Diario di Etty Hillesum. “L’unica sicurezza su come tu ti debba comportare ti può venire dalle sorgenti profonde che zampillano nel profondo di te stessa. E lo dico ora con tutta umiltà e riconoscenza e sincerità, anche se so bene che tornerò ad essere suscettibile e ribelle: Dio mio ti ringrazio perché mi hai creata così come sono. Ti ringrazio perché talvolta posso essere così colma di vastità, quella vastità che poi non è nient’altro che il mio essere ricolma di te. Ti prometto che tutta la mia vita sarà un tendere verso quella armonia, e anche verso quello umiltà e vero amore di cui sento la capacità in me stessa, nei momenti migliori.” (Etty Hillesum, Diario). Ne ho indagato le ragioni ed i campi semantici, mi sono spinto molto lontano, fino alla sua etimologia. Umiltà, questa parolina tronca che viene da humi -a terra- derivante a sua volta, da humus, che è la terra appunto. Una parola più sfaccettata e difficile di quanto sembri, perché, avendo a che fare, in qualche modo, con ciò che è terrestre, ha un lascito di concretezza che ripensandola, ci sembra fuorviante. Scavando ancora più a fondo, trattandosi di terra, sono arrivato all’etimologia sanscrita, sebbene non troppo accreditata, che riconosce una provenienza da bhumi (che è ancora la terra) e bhuman che è una creatura della stessa. Ecco, questo forte vincolo umano con il terrestre, è caratterizzato da quella che nella cultura moderna, sembra essere una virtù così lontana e rara: l’umiltà. Sulle basi di questa virtù, dai tratti bucolici, si installa un campo di compromessi per cui, fronte ad essa, perfino l’edonismo, diventa senso di bellezza e la grandezza, abbandona i contorni della megalomania, per diventare un progetto da servire, qualcosa di più grande dell’egoismo, che contempla ogni forma di diversità.
Nietzsche, ci ha riconsegnato una bellissima metafora per onorare l’umiltà: “Il verme calpestato si rattrappisce. E questo è intelligente. Diminuisce infatti la probabilità di venir calpestato un’altra volta. Nel linguaggio della morale: umiltà.” Non mi spingerei molto lontano per cercare un riverbero morale nell’umiltà, piuttosto mi soffermerei sul suo carattere ancestrale di legame con la terra, di carattere terreno e trascendente allo stesso tempo, se si contorna all’umile per eccellenza, Gesù. Come si fa a pensare il figlio di Dio, come umile? Pensateci bene, Gesù è sceso, con coraggio. Dove è sceso? Sulla terra. Sull’umano, sull’uomo, sull’humus. Si è fatto carico di questo abbassamento, di questa kenosis che significa, letteralmente, svuotamento, abbassamento appunto, la sintesi della vicenda terrena di Gesù di Nazareth, diventato uomo tra gli uomini, povero, condannato a una pena capitale e infamante, riservata solo agli schiavi e ai ribelli antiromani, ma tutto ciò non ne ha reso nullo il carattere divino. Sostiene E. Schillebeeckx: “Il Gesù storico fu un uomo che continua a porci la domanda se la realtà di Dio non sia il bisogno più importante della vita umana; se la risposta a tale domanda è positiva, essa ci richiede una radicale metanoia: un riordinamento della nostra vita. Pertanto: la questione che Gesù continua a porci comporta in prima istanza un fondamentale disorientamento. Gesù avrebbe potuto continuare a vivere nel suo super-bios, nella superbia del potere che conferisce l’essere il figlio di Dio, avrebbe potuto rendicontare solo “nobilissimi ed eteri natali”. Il figlio di Dio, è, invece, sceso sulla terra a conformarsi alla condizione di terreno, di servo, di colui che ha lavato i piedi, di obbediente e si è spinto al punto estremo dell’umiltà (che è anche umiliazione ma con altre sfumature): “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). Nel punto più terreno possibile, poi, allo svincolo della morte, si ricongiunge con la potenza del Padre, sotto la potenza dello Spirito Santo, l’humus che è corpo morto, si vivifica per l’eternità. A proposito dell’umiltà, della sua natura più concreta, Giovanni Crisostomo la descriveva come “la madre, la radice, la nutrice, il fondamento, il legame di tutte le altre virtù”.
Dalla cascata di tutte le virtù umane, discende per prima e non è un caso, che nel movimento metaforico dell’acqua, anche le virtù discendano, ad abbeverare gli animi dell’uomo. Per dirla con le parole di sant’Agostino: “Tu, uomo, riconosci che sei uomo; tutta la tua umiltà consiste nel riconoscere che sei uomo”. (commento al Vangelo di Giovanni, Omelia 25, 16). Questo humus, ci caratterizza come umani, come dotati di umanità, come figli di quell’adagio che recita homo sum, humani nihil a me alienum puto e per il quale nulla di umano ci appare alieno, estraneo, in nessuna contingenza del mondo. Umiltà, allora, è “proprio un avvertire, un percepire la grandezza della vita. Senti che la vita è forte, è grande, più grande di te. Ti supera” (M.T.Abignente [ed], Umiltà. Incontro con Angelo Casati, ed.Romena, Pratovecchio Stia [AR] 2016, 22).
Dobbiamo imparare l’umiltà alla scuola della vita, facendoci suoi discepoli! É, quindi, un fatto concreto, non solo una virtù intangibile ma un servire concretamente, non una questione di sentimenti ma di gesti ed azioni. La meraviglia di questa concretezza, è la sua gratuità. In un mondo che svilisce i valori, inflazionando i prezzi, una così potente e reifica verità, ha il carattere della gratuità e ci lascia basiti, affogando tutta la nostra grandezza nella semplicità. Racconta don Gigi Verdi: “Mi piace da morire questa immagine della storia di Cenerentola. Il padre di Cenerentola parte per un lungo viaggio. Le sorellastre gli chiedono come dono gioielli e bei vestiti. Cenerentola invece chiede il primo rametto che il padre urterà tornando a casa. Sarà un ramo di nocciolo. Lei prende questo rametto lo pianta nella tomba della mamma e va tre volte al giorno con le lacrime a bagnarlo. E arriva questo uccellino bianco che si posa sul nocciolo. Questa lezione ci fa capire perché Cenerentola non reagisce mai alle sorellastre: non per un senso di umiltà vissuta come sottomissione, ma perché punta oltre, perché vede oltre. Chi è umile ha uno sguardo che sa andare oltre”.
Ecco, quello che oggi manca a questo mondo parecchio virtuale, “uno sguardo che sa andare oltre”, il coraggio della discesa, dello spendersi gratuitamente, del non cercare forsennatamente il plauso degli altri. Ci manca l’umiltà perché ci manca la gratuità, che non è, in termini economici e sociali, uno sfruttamento, uno svendere la professionalità al sottocosto, una nuova forma di schiavitù liberalizzata. La gratuità è un dono di concretezza, libero, limpido e puro, il gemello siamese dell’amore. Cosa si dà gratuitamente e senza interesse? L’amore. Dall’amore ci si abbassa. All’amore ci si abbassa. Non solo attraverso forme di dipendenza, di assuefazione d’amore, di porzioni narcisiste da sottomissione. All’amore ci si abbassa in nome di quella gratuità umile e dignitosa che concede senza pretendere. Bisogna, però, esercitarsi all’umiltà, non scartarla o utilizzarla preconfezionata, ma congiungerla all’indole di amare l’altro, come si ama se stessi. L’umiltà deve tornare ad essere una vocazione, qualcosa che ci ancori autenticamente alla nostra natura caduca ed imperfetta e che di queste fragilità ne faccia ricchezza del donare, una vocazione genuina alla partecipazione delle gioie e dei dolori degli altri. “Allora, sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Marco 9:35). Agli ultimi Gesù concede il dono di essere servi, gli ultimi dall’animo incorruttibile e mite, quelli che lavano i piedi, vanagloriosi solo per l’amore di Dio, quei peccatori da rivestire con l’anima del perdono, quel mantello che ricopre dalla vergogna e che abbraccia nell’amore e nella speranza della Resurrezione. Isacco il Siro predicò che: “L’umiltà è il vestito di Dio. Chiunque riveste questo mantello nel quale il nostro Creatore si è rivelato, riveste lo stesso Cristo”.
Essere umili, vuol dire dunque, riconoscersi nell’anima dell’altro, comprendere che mettersi nei panni dell’altro, spesso implica un adattamento biologico alla sofferenza che disconosciamo, per come pensava Ludwig Wittgestein, ammettendo che il dolore non possa essere un linguaggio privato. Ma resta pur sempre un linguaggio, da ascoltare, da comprendere, da valutare e da lenire. Ritornare alla terra è riconciliarsi con la consolazione del mondo, con la verità della preghiera silenziosa, quella che non riempie le navate storiche, ma l’abside dei cuori di tutti, quella che si rivolge alla sofferenza rivelandosi, senza la patina della superbia. Il super-bios, paradossalmente così tanto vicino al cielo, ci restituisce altezze fittizie, una biosfera di falsa ricchezza, in cui la gratuità non è contemplata.
Un cantautore italiano, Simone Cristicchi, ha scritto un bellissimo verso, in una sua canzone che idealizza la cura, “anche in un chicco di grano si nasconde l’universo”. Ecco, l’umiltà ci insegna ad essere quel chicco di grano foriero della gioia del mondo, che si quantizza nella gratuità dell’amore, specchio fedele della grazia di Dio. Siate Humus, concimate la terra dell’altro, dal basso dei vostri occhi, dall’alto del vostro cuore, piantando convivialità sulla differenza, compassione (che è il patire insieme) sul dolore, bellezza sull’amore e, da quel chicco di grano, l’universo risorgerà nello splendore di ogni primavera. E con le parole di Santa Teresa d’Avila, che rivolgo a me e a tutti coloro che avranno modo di leggere questo scritto, mi piace sostenere: “È tanto importante conoscerci, che in ciò non vorrei vi rilassaste, neppure se foste già arrivate ai più alti cieli, perché mentre siamo sulla terra, non c’è cosa più necessaria dell’umiltà. Torno dunque a ripetere che è assai utile, – anzi, utile in modo assoluto – che prima di volare alle altre mansioni, si entri in quelle del proprio conoscimento, che sono le vie per andare a quelle. […] Facciamo piuttosto del nostro meglio per approfondirci in questa nostra conoscenza. Ma credo che non arriveremo mai a conoscerci, se insieme non procureremo di conoscere Dio. Contemplando la sua grandezza, scopriremo la nostra miseria; considerando la sua purezza riconosceremo la nostra sozzura; e innanzi alla sua umiltà vedremo quanto ne siamo lontani. […] Perciò, figliole, fissiamo gli occhi in Cristo nostro bene e nei suoi santi, e vi impareremo la vera umiltà”. È un’umiltà che non giustifica il male, non ne è connivente, ma nemmeno vi reagisce facendo altro male. È un umiltà che ama e propone l’amore anche nell’inferno dell’odio più bieco, come quello che faceva scrivere ad Etty Hillesum sul campo di concentramento di Westerbork parole grondanti di Vangelo, perché vicinissime a quelle di Gesù sulla croce e a quelle di Paolo di Tarso sull’amore che costruisce. Queste: «Si, è vero, siamo messi alla prova nei nostri fondamentali valori umani … E poi, il mio è un resoconto molto parziale. Potrei immaginarne un altro pieno di odio, amarezza e ribellione. Ma la ribellione che nasce solo quando la miseria comincia a toccarci personalmente non è vera ribellione, e non potrà mai dare buoni frutti. E assenza d’odio non significa di per sé assenza di un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più corta e a buon mercato? Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale. E credo anche, forse ingenuamente ma ostinatamente, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto nel tredicesimo capitolo della sua prima lettera». (E. HILLESUM, Lettere 1942-1943, a cura di Chiara Passanti, Adelphi, Milano 1990, 51).