Mons. Savino: “perché non vi stanchiate perdendovi d’animo”

Mons. Savino: “perché non vi stanchiate perdendovi d’animo”

Oggi più che mai, impediti a incontrarci da un’emergenza sanitaria che ci impegna a non uscire di casa, riconosciamo la fraternità che ci unisce a tutti coloro che sono al di là della nostra porta, oltre le mura che ci proteggono. Nei gesti e nelle parole dirompenti di un Papa che abbiamo visto piccolo, esposto alla pioggia e al vento, solo, in piazza San Pietro, abbiamo compreso che siamo sulla stessa barca, quella su cui Gesù è presente, mentre attorno a noi è buio e tempesta. Nel dormire del Maestro, però, possiamo scoprire una fiducia totale, scoprirla e coltivarla. Coltivare la sua fiducia, parteciparne, è il dono dello Spirito che ci fa famiglia, Chiesa.

Alle soglie di una Settimana Santa in cui sarà per la prima volta impossibile radunarci e porre insieme i segni e i gesti che da secoli rinsaldano nella passione di Cristo la nostra unità, mi sono chiesto come e cosa scrivervi. E andando col cuore al Nuovo Testamento, alle pagine cioè che lasciano intravvedere una Chiesa che nasce e prende forma, ho avvertito che uno dei registri più delicati nella conversazione, uno dei più appassionati, è quello esortativo. Tutti gli apostoli lo hanno praticato. Gesù stesso ha esortato. Delicato, perché presuppone l’amore ovvero un’immedesimazione totale nell’altro; appassionato, perché chi esorta mira a scaldare il cuore, a generare cambiamenti. Una predica richiama, un discorso presenta, un’esortazione invece motiva: in essa la tonalità delle parole dipende dall’urgenza che comunicano, scaturisce dalla percezione di una speranza da partecipare. Avverto che proprio di motivazione abbiamo bisogno. Tutti. Chi ha consacrato a Dio la vita intera, chi partecipa della missione apostolica, chi porta il vangelo nelle realtà secolari, chi educa i bambini, chi assiste gli anziani, chi cura i malati, chi guadagna il pane, chi governa il Paese, chi piange i suoi morti. Tutti abbiamo bisogno, specialmente ora che ci teniamo a distanza l’uno dall’altro, con tensione e timore, di chi ci parli da cuore a cuore.

Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21): ecco il desiderio che l’evangelista Giovanni, attribuendolo a dei Greci presenti a Gerusalemme per la Pasqua, intuisce universale, eterno, inesauribile. Negli scorsi anni, davanti alle folle che riempiono le nostre parrocchie la Domenica delle Palme, o le nostre strade per i riti della Settimana Santa, ogni pastore sarà stato in diversi modi impressionato da quel desiderio diffuso, a volte implicito: “Vogliamo vedere Gesù”. Agire nel gregge, sentire che il nostro compito è servire, assecondare, sostenere quel desiderio: questo è più necessario che mai. È una tensione da avvertire insieme, laici, religiosi e sacerdoti. “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32), dice Gesù. Vi esorto a non dimenticare quelle scene che hanno accompagnato la nostra vita, a ritornarvi con la memoria, perché mai come quest’anno il bisogno di essere salvati urla nel cuore di tutti noi. Lavoriamo creativamente, anche se a distanza, in ogni parrocchia, gruppo, associazione e movimenti, per rinsaldare la famiglia dei figli di Dio con tutte le risorse a nostra disposizione, avendo a cuore che nessuno perda l’occasione nascosta in questa Pasqua. Solo insieme si può non dubitare, confermarsi che nel passato non si è trattato di illusione, accogliere l’amore più grande, sentendosi ben ancorati a terra. “Fedeli alla terra”, come amava dire il martire evangelico Dietrich Bonhoeffer. È qui e ora che seguiamo Gesù sino alla fine, che moriamo e rinasciamo con lui. È qui e ora che collaboriamo al suo fare nuove  tutte le cose.

Il Vangelo di Giovanni, alle soglie della Pasqua (Gv 12, 1-11) delinea nella casa di Betania due profili: quello di Giuda e quello di Maria, sorella di Lazzaro, entrambi presenti al medesimo Maestro. Rileggiamo quel delicatissimo passaggio. Immaginiamoci dentro la scena, rappresentiamocela: osserviamo, ascoltiamo, entriamo a contatto con i nostri sentimenti più profondi.

Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: «Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?». Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me».

Giuda e Maria. Lo stesso Bene si è offerto a entrambi, il medesimo sguardo di predilezione lo hanno avvertito su di sé in una lunga familiarità. Eppure Giuda appare distaccato, calcolatore, ladro: sta per smarrirsi definitivamente. Dall’altra parte la gratuità di Maria, l’offerta smisurata del suo nardo, il banchetto per ringraziare di Lazzaro strappato alla morte: tutto testimonia un amore di intensissimo profumo. Calcolatori si diventa quando la fede sfuma nel dovuto, nel precetto soddisfatto, senza creatività, senza generosità. Praticanti non credenti? Forse. Ebbene, quest’anno ci è impedito di “praticare”, di celebrare, o almeno di farlo nel modo consueto. Nulla è più scontato, né dovuto, né automatico. Nulla ci consente di metterci in mostra. Giuda descrive una parabola, che si fa domanda a ciascuno per sé: “Sono forse io?” (Mt 26,22).

Papa Francesco, in piazza San Pietro, ci ha scossi profondamente:

«La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità. Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”».

I riti della Settimana Santa, grazie a Dio, interrompono i calcoli di Giuda e lasciano irrompere l’esagerazione di Dio. Essi sospendono il corso regolare del tempo, invitano ad una sosta. “O voi tutti che passate per via, fermatevi e guardate” (Lam 1,12). Chi ha interiorizzato lo spettacolo della croce non può non esortare chi ama a sostare e a guardare. Vengono giorni, infatti, in cui passare oltre è follia, è rinuncia a vivere, è abbandonarsi alla perdizione. Ecco Maria, che già secondo Luca, mentre Marta era tutta indaffarata nelle faccende di casa, aveva avuto il coraggio di fermarsi, di sedersi, di ascoltare ciò che alle donne non era consentito ascoltare: un maestro. Come tacerlo, come nasconderlo, se si ama? La fisicità dei gesti di Maria di Betania, che con un’intimità estrema avvolge Gesù di sé, del suo profumo, dei suoi capelli, del suo caldissimo corpo ci dice come la Chiesa è Chiesa tra le mura di casa. Non c’è casa dove non c’è intimità; non c’è casa, dove non ci si serve, non c’è casa dove la gratitudine e l’affetto non si manifestano in forme di tenerezza e di attenzione. Pasqua quest’anno sarà a casa. In case dove esistono anche violenza, invisibilità, separazioni, perdoni negati, sopruso. Case – penso a molti anziani, a persone single o separate e anche ad alcuni preti – in cui c’è solitudine: lì Gesù ci nutrirà, vivrà il suo Getsemani, il nostro giudizio, le sue cadute, la crocifissione, la morte. Effonderà lo Spirito. “Senza misura” (Gv 3,34), legandoci reciprocamente nell’unica Chiesa. Andiamo oltre i legami di sangue anche solo con una telefonata, con una videochiamata, con un messaggio: facciamoci vicini in modo nuovo, non dovuto, irrituale, senza calcolo.

Le notizie che entrano in queste nostre case ogni giorno potranno rimanere a lungo drammatiche. Ancora non sappiamo per quanto vedremo immagini di ospedali e di morti, ovunque nel mondo.

Avvertiremo, però, che c’è quotidianamente chi ha negli occhi tanto dolore non attraverso lo schermo, ma in una corsia, a fianco di chi soffre. Pochi giorni fa, su Avvenire, è stata pubblicata la testimonianza toccante di un sacerdote, il teologo bergamasco don Maurizio Chiodi, in ospedale ormai da un mese. Le condizioni di salute non gli hanno impedito di essere prete fino in fondo così che nelle sue parole possiamo interpretare la Pasqua anche dall’interno del dramma che tutti ci inquieta. Il vangelo non semplicemente spiegato, ma vissuto, persino in un letto e nell’estrema fragilità.

«Non sai mai quando il virus interromperà la sua corsa, a quale sintomo si fermerà. L’odiato e invisibile nemico è sempre in agguato. E poi senti o intuisci degli altri che muoiono, intorno a te. La morte è lì. Dovrebbe essere sempre così, nella vita, ma lo dimentichiamo tanto facilmente! Vedi gli altri morire intorno a te e ti chiedi: toccherà anche a me? Quando? E poi ti domandi: perché l’altro e non me? E perché sono stato colpito io e non l’altro? Insieme a questi, sorgono molti altri interrogativi, che riguardano il contagio, il prima e il dopo: ho rischiato certo, nel continuare la mia vita normale quando già l’allarme circolava, e il mio è stato un rischio prudente? Sono momenti che ti costringono, più o meno lucidamente, a un nuovo rapporto con l’altro, nel quale si alternano momenti di gratitudine immensa – basta pensare a chi si prende cura di te, spesso rischiando per sé – e di comunione profonda e altri di lotta e di incomprensione, di stanchezza e di fatica. Il Covid-19 è un’esperienza mortale perché ti colpisce in forme che hanno a che vedere con le esperienze più semplici della vita: il calore del corpo, nella febbre, e poi i dolori diffusi, la tosse, le difficoltà respiratorie, la nausea, l’inappetenza, la diarrea… Il virus tocca l’atto del respirare e del mangiare, insidiandoti nel tuo rapporto con le cose e con il mondo e colpendo l’intimo più profondo del tuo corpo. Si insinua in te, ingaggiando una lotta mortale, colpo su colpo, corpo a corpo. Tutte queste esperienze di patimento e di morte, per noi credenti, e per ciascuno a modo suo, sono un modo per vivere la passione di Gesù, stando in comunione con Lui. Il Getsemani, il dolore che lacera il corpo, la solitudine della croce, l’impossibilità di condividere e comunicare con gli altri, l’incomprensione, il “sentirti fuori”, come scartato ed emarginato da una comunità che ringrazia, canta e loda, perché in quel momento tu non puoi farlo. Certo, la croce di Gesù è anche altro, perché è la morte del Figlio di Dio offerta per amore di coloro che lo rifiutano, ma è proprio nell’umanità del Figlio che ciascuno di noi ritrova la propria morte. C’è poi il sabato santo. È il tempo dell’attesa, per noi credenti. C’è un sabato santo anche nel Covid-19. È l’attesa di una guarigione, che desideri con tutto te stesso e che puoi perfino favorire, ma che, radicalmente, non dipende da te. Puoi solo attenderla, sperarla, senza sapere a priori che ci sarà un lieto fine. Non c’è nulla di più importante, per un paziente, che la virtù della pazienza. Come dice la lettera agli Ebrei (5,8), in un bellissimo passo che è riferito a Gesù, il Figlio, e dice la verità di ogni figlio dell’uomo, la pazienza è lasciarsi istruire da ciò che si patisce. Lasciarsi istruire è sapere attendere, apprendere di apprendere da quanto ti accade e tu non comprendi e non accetti. Lasciarsi istruire, cioè pazientare, è non precipitare, non demordere, non scoraggiarsi, resistere, darsi tempo e dare tempo. Nell’attesa, tu dai tempo all’altro, di cui ti fidi, e sai di essere nelle mani dell’Altro, in cui hai riposto ogni confidenza».

Don Maurizio ci annuncia la confidenza, la vive. Non perdiamo allora la speranza. In uno scritto del Nuovo Testamento, di cui non conosciamo l’autore, è riportata questa esortazione, che vorrei ora fare mia: “Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo” (Eb 12,3). E rompendo la retorica, quest’anno davvero impossibile, vi domando: perché mai il pensiero alla sofferenza di Gesù dovrebbe esserci di sollievo e risparmiarci stanchezza? Ciò che gli è stato fatto – e che ricorderemo in questi giorni – non aumenta forse lo smarrimento? Sembra difficile non perdersi d’animo in un mondo offeso da tanto male. La nostra umanità ha liquidato persino il Giusto, l’Innocente: perché tenere fisso lo sguardo su di lui, senza stare peggio? Verrebbe da disperare. Ve lo dico onestamente: sono domande che forse in altre circostanze non avremmo osato farci. Avremmo continuato a ripetere i nostri canti, a baciare il crocifisso, a intercedere per il mondo. Ma quasi non avvertendone lo scandalo. Perché mai la sofferenza di Gesù dovrebbe darci sollievo?

Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio” (Eb12,2). Vedete? Ecco la sorpresa! L’autore della Lettera agli Ebrei incastona una parola preziosissima sul cupo sfondo della passione: gioia. Gesù aveva la gioia dinanzi e andava alla croce. I verbi esprimono libertà e determinazione. Non si tratta di un poveretto, di una semplice vittima che attragga su di sé sguardi e parole di compassione: occorre, dunque, che ci smarchiamo da una devozione che troppe volte è scivolata nel compatimento per il buon Gesù. Se in lui, infatti, vediamo il dolore di chi dal peccato è assediato e annientato, è solo perché consapevolmente lo affronta, in un corpo a corpo decisivo. Il peggio che ci abita, la tenebra da cui siamo posseduti si è riversata violentemente sulla sua persona. Da chi arresta, condanna e uccide il Cristo, erompono ancestrali paure. Le stesse che escono da noi anche oggi, quando nella tempesta ci scopriamo aggressivi e ci troviamo gli uni contro gli altri, invece che capaci di remare nella stessa direzione. Come un demonio che ci abbandona, però, in Gesù crocifisso vediamo il male che scatenandosi ci lascia, esce: l’Agnello, così, catalizza un’angoscia che proprio sfogandosi rivela il suo limite e finisce.

È tutto qui: la croce racconta il limite degli orrori nostri e la stabilità della misericordia. C’è qualcuno che ci regge, che tiene nella prova, che continua ad amarci. Comprende, attende, ripone in Dio la sua fiducia. La gioia di Cristo è il Padre alla cui presenza vive. Ogni parabola, incontro, gesto che ha preceduto la Passione diventa chiave di lettura del dono supremo. Dio salva: questo è ciò che significa il nome “Gesù” e risplende sulla croce. Che dal mondo il male sia tolto, che esista un nome dato agli uomini nel quale è stabilito che siamo salvati, che tutto ormai ruoti attorno a Cristo e sia prima o dopo di lui: questa è la gioia cristiana, in cui sorge quella fraternità di peccatori perdonati che chiamiamo Chiesa. La Chiesa di Gesù. Mi è parso di sentire vibrare l’energia di questa speranza nell’esortazione di António Guterres, segretario generale dell’ONU, alcuni giorni fa. Egli ha trovato la forza di ricordare ai grandi della Terra i molti Getsemani, gli infiniti Calvari su cui viene crocifissa oggi l’umanità innocente a motivo di conflitti che i poveri e i piccoli subiscono sempre come vittime.

«Al virus non interessano nazionalità, gruppi etnici, credo religiosi. Li attacca tutti, indistintamente. Intanto, conflitti armati imperversano nel mondo. E sono i più vulnerabili – donne e bambini, persone con disabilità, marginalizzati, sfollati – a pagarne il prezzo e a rischiare sofferenze e perdite devastanti a causa del Covid-19. […] È questo il motivo per cui oggi chiedo un immediato cessate il fuoco globale in tutti gli angoli del mondo. È ora di fermare i conflitti armati e concentrarsi, tutti, sulla vera battaglia delle nostre vite. Alle parti in conflitto, io dico: ritiratevi dalle ostilità. Accantonate diffidenza e animosità. Fermate le armi, l’artiglieria, i raid aerei. Ciò è fondamentale per aiutare a creare corridoi che permettano di salvare vite. […] Arrestare la piaga della guerra che sconvolge il nostro mondo comincia con il mettere fine ai conflitti ovunque. Adesso. È ciò di cui la nostra famiglia umana ha bisogno, ora più che mai».

Le parole dei costruttori di pace, la dedizione del personale sanitario, il sacrificio di tanti sacerdoti contaminati nel ministero fra la gente, la memoria della fede di chi ci sta precedendo in cielo mi sospinge a salutarvi con le parole con cui prosegue la lettera agli Ebrei: “Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,1-2). Come in una grande maratona, l’autore vede Gesù davanti dare a tutti il passo cioè quell’andatura che rende possibile arrivare al traguardo senza venir bruciati dalla fatica. Aver gli occhi su di lui impedisce lo sconforto, dà il giusto ritmo, abilita a mete straordinarie chi prova la tentazione di lasciare. La passione, nucleo incandescente della fede, sprigiona dunque l’energia necessaria ai veri atleti che vi auguro di essere. Perché vi conosco e con voi corro ormai da tempo, avendo Gesù negli occhi. Buona Pasqua, sorelle e fratelli miei !