Mons. Savino: ricondotti al silenzio, deserto in cui Dio ci parla, al tempo del coronavirus

Mons. Savino: ricondotti al silenzio, deserto in cui Dio ci parla, al tempo del coronavirus

«Silenzio prima di nascere, silenzio dopo la morte, la vita è puro rumore tra due insondabili silenzi» (Isabelle Allende). «Mosè e i sacerdoti leviti dissero a tutto Israele: «Fa’ silenzio e ascolta, Israele! Oggi sei divenuto il popolo del Signore tuo Dio» (Dt 27,9).
Sono giorni di profonda riflessione. Sono giorni di una strana solitudine, di attese spesso disattese, di vibrazioni del cuore, di affanni inconsistenti. Sono i giorni della coscienza, il fiume in piena sta passando, ha divelto gli argini e ci sta restituendo detriti di consapevolezza.
E’ accaduto davvero. Ogni giorno di attesa in più ci è sembrato sottratto alla speranza, ogni giorno di silenzio in più, ci ha negato abbracci, ogni giorno di solitudine in più, ci ha allontanato da quel frastuono vitale che sembra non appartenerci ancora. Stiamo attraversando un tempo, un’era, un’epoca di cui resterà traccia sui libri di storia.
Sono giorni, che racconteremo ai nostri nipoti, col piglio di quelli che “ce l’hanno fatta”, come recitavano slogan apparsi su tanti balconi d’Italia: Andrà tutto bene! Ce la faremo! Coniugare la speranza al futuro, significa attraversare il dolore che la sottende, con coraggio.
Questa è stata la nostra lotta al coronavirus e, badate bene, i libri di storia non saranno colmi, come spesso purtroppo accade, di armi, di missili, di sangue. Saranno pieni di immagini silenziose. Perché il potere percettivo che ci restituiscono le immagini che vediamo in televisione, o anche dalle nostre finestre, o scendendo sulle strade per le incombenze urgenti consentite, hanno una silenziosissima eloquenza. Parlano afone, ci raccontano di una tragedia che si sta consumando senza che nessuno conosca i colpevoli e, a volte, ci verrebbe voglia di “non conoscere neanche i colpiti”, che sembrano solo numeri, ai quali non è stata data neanche la dignitosa consolazione di un fiore.
Su questa “via dolorosa”, riusciremo, forse, finalmente, a restituire al silenzio, quel ruolo primario sulla vita, quella cura necessaria per preservarlo dalla patina del rumore, che è anche un rumore interiore. Potremo così superare un disturbo dell’anima, facendo in modo che questa si ripensi, che si adagi su onde di pensiero, su quell’intimo incontro introspettivo che ci dischiude a noi stessi, a Dio, al mondo. Su questa via, saremo come ricondotti al silenzio abissale del deserto, dove Dio volle riportare al suo primo amore il suo popolo, appesantito dalla mediocrità e sempre più sprofondato nell’idolatria. Recuperare il silenzio del deserto sarà per noi, popolo di Dio oggi, pur non fisicamente radunato, fondamentale per riacquistare la dovuta attenzione all’ascolto e all’amore, all’amore di Dio e dei fratelli, così come troviamo scritto in Osea, il profeta della assemblea di Dio, cantata come sposa, radunata dal suo amore: «Perciò, ecco, – dice il Signore – la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16).
Tale esperienza è da approfondire come Chiesa. Si basa su ciò che non abbiamo perso, nell’epoca della post verità, perché il silenzio non ha smesso di occupare un posto primario nella scena del senso, sostituendosi anche alle verità essenziali, diventando, di fatto, il protagonista vero della vita di ognuno. Un ruolo che ha guadagnato nonostante quell’invisibile flusso, continuo, di parole e di suoni, che monopolizza la biologia della società, che ci impone una comunicazione brulicante appesa al filo di reti social(i), governate da smartphone, per cui si consuma, in parallelo, una delle più grandi violenze del secolo: il consumismo. Come scriveva Pasolini: «Il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore».
Di solito, infatti, viaggiamo nei “non-luoghi”, posti obbligati in cui non si può fare esperienza del silenzio, in cui ci rifuggiamo per rimanere iperconnessi, per citare il titolo di un libro di Jean Twenge, che ha fatto pensare e ripesare all’abitacolo umano, a quei sorsi di vissuto che affidiamo, costantemente al multimediale, per un bisogno perenne di confronto irreale, un bisogno di chiamarsi e basta. David Le Breton, antropologo e sociologo che vive il nostro tempo, ha confinato il ruolo del silenzio a quello del guasto, della défaillance, «è cessazione di tecnicità, più che emergenza di un’interiorità.
Il silenzio diviene allora reperto archeologico. Al tempo stesso però, il silenzio risuona come una nostalgia, fa appello al desiderio di un ascolto senza fretta del fruscio del mondo. L’ubriacatura di parole rende invidiabile il riposo, il godimento di pensare. E il silenzio, da rimosso che era, acquista un valore infinito».
Il grande assente di questa modernità, e che ora, nostro malgrado, stiamo apprendendo è proprio il silenzio. Perché lo abbiamo accostato più all’isolamento, alla solitudine insofferente, conferendogli una accezione negativa, senza comprendere, invece, il potere che ha sullo stimolo l’introspezione liberante dell’anima, che non è propensione verso se stessi, non è amore per sé, è amore di sé, cifra necessaria a canalizzare un amore forte, nelle vene della vita, verso la fonte dell’altro.
E allora, lasciatemi dire, che ad un metro da me, lì dove ora stiamo ripensando l’altro, in una forma necessaria di distanziamento sociale, ad un metro da me, c’è l’altro, l’altro che è fatto delle mie stesse paure, dei miei stessi silenzi, della mia stessa voglia di amare, di credere, di sperare, di ricominciare, partendo da un silenzio. Perché, a ben pensarci e come ha scritto la Allende, è il silenzio che ci caratterizza, perché ad esso tendiamo e da esso proveniamo, durante tutta la parentesi della vita. Questa è la potenza rivoluzionaria della comunicazione, oggi, il coraggio di rimanere, non zitti, ma silenziosi.
Pur rimanendo zitti, stiamo compiendo comunque un atto profondamente comunicativo, che non passa dal non-detto, dal non-proferito, dal non-pensato. Passa attraverso un bisogno umano, troppo umano, di ritrovarsi, negli appelli urgenti del mondo. Ogni parola, come diceva Sartre, ha conseguenze, ma ogni silenzio anche. Riuscire a riabitare l’anima al silenzio, sarà la vera rivoluzione di portata storica, che l’esperienza del coronavirus ci lascerà, perché avremo imparato a riflettere sul suo valore, sulla sua violenza, sul suo eros, su quell’impossibilità di tenerlo ad un metro da noi, sulla sua potenza comunicativa, sulla sua forza di espressione, sul suo essere l’ordito che regge le trame delle storie d’amore. E, come quando un amore finisce e si riscopre vero nell’assenza di rumore, così dobbiamo ripensare la nostra vita, vera, solo nelle profondità del nostro silenzio, quello che risuona, per citare le parole di Le Breton, come una nostalgia, quella sofferenza dettata dal desiderio inappagato di ritornare, nei nostri luoghi dell’anima, quelli inabitati dal rumore ed incorniciati dalla meraviglia dell’essenziale. «Realtà costitutiva dell’uomo, il silenzio è, per così dire, un dono che Dio ha immesso nell’uomo e nel cosmo come traccia della sua stessa presenza. Potremmo dire che il silenzio è Dio presente a noi; è Dio in noi; è l’ineffabile in noi; è l’Essere che si esprime con l’essere semplicemente quello che è. Ma queste sono parole che rischiano di sciupare una realtà che si può solo intuire, gustare e godere attraverso l’esperienza. L’esperienza del silenzio, infatti, concilia con l’esperienza mistica della presenza di Dio» (A. M. Canopi).
È l’esperienza di ciascuno di noi singolarmente preso, ma è anche l’esperienza di un’assemblea che ci è mancata e della quale abbiamo avvertito la carenza proprio nel sentire pesante la sua assenza. Idealmente congiunti all’intera assemblea, a tutti voi che leggete e a tutti coloro che il silenzio ha conquistato per nuovi spazi e orizzonti sconfinati che rimandano a Dio, preghiamo così:
“Concedici, Signore, il dono del silenzio! Rendici una dolce e perfetta consonanza d’amore per lodarti degnamente celebrando la liturgia del silenzio con la santità della vita. Non lasciarci disperdere nella vanità delle nostre parole, ma fà che, immersi nel tuo Verbo, attingiamo alla sorgente del tuo ineffabile mistero l’esultanza della pura lode. Amen. Alleluya! (A. M. Canopi)