“Riabitare la città”. La riflessione di mons. Melillo

“Riabitare la città”. La riflessione di mons. Melillo

Siamo stati proiettati a causa della pandemia del Covid-19 in una inattesa condizione gravida di molte preoccupazioni e densa di prospettive nebbiose per il futuro della nostra gente, per la vita del nostro Paese e della nostra città.

Per quanto ci riguarda da «credenti siamo cittadini che intendono vivere i problemi come sfide e non come ostacoli» (cf Papa Francesco, Discorso ai delegati, V° Convegno Ecclesiale Nazionale). Questo è un tempo che da ciascuno pretende una riflessione e un’azione. Tra i “verbi” da declinare oggi troviamo il verbo abitare.

Si tratta della via di «un impegno concreto di cittadinanza per animare cristianamente il territorio e la storia» (A. Bagnasco, Prospettive di sintesi, V° Convegno Ecclesiale Nazionale). Perché, «le città non sono solo scambi di merci: sono scambi di gesti, parole, emozioni, memorie, tempo, saperi». (Italo Calvino)

Lo ‘stile’ del nostro abitare

«Auguriamoci non lontano uno di quei soffi di desiderio di giustizia, di amore per gli uomini, di fiducia nella fratellanza, di capacità di rinunce da parte di chi più ha, di confidenza nei vicini. In una parola, auguriamoci un ritorno al messaggio cristiano, e che da questo possa nascere la nuova forma di Stato» (Arturo Carlo Jemolo).

È un accorato richiamo allo stile da adottare per abitare la città. Ci sono almeno due modi di abitare un luogo. Il primo è quello di una chiusura su sé stessi, che decontestualizza in una attitudine fondamentalmente egoista, isolandoci dal contesto in cui il luogo del nostro abitare si situa. Per quanto riguarda Ariano, a mio avviso, non è accettabile lo stato delle vie d’accesso e di comunicazione che ne snatura la naturale geografia di cerniera tra i due mari, di terra di mezzo tra due regioni. Il secondo è, invece, quello auspicabile di un’apertura che ampli i confini visibili dell’abitare. Non possiamo abitare semplicemente la nostra casa nella quale abbiamo vissuto un tempo sospeso e percepito il mondo fuori come inospitale. Noi, dobbiamo aver coscienza di abitare una città accogliente, un territorio straordinario, una realtà più ampia, con attività lavorative in oggettive difficoltà, il cui destino è necessariamente comune, del quale deve farsi carico ciascuno, tanto più chi intende rivestire responsabilità pubbliche. Questo stile dell’abitare, è in realtà lo stile proprio della nostra gente, dei nostri luoghi, delle nostre realtà. Ma è necessario un impegno comune che miri a custodirlo e, in qualche modo, a riappropriarcene dando futuro di relazioni, di lavoro e di attività che creino condizioni necessarie per continuare ad abitare questi luoghi.

La prima cosa che ho da dirvi è questa: amatela questa città, come parte integrante della vostra personalità. Voi siete piantati in essa: in essa saranno piantate le generazioni future. Quali responsabili del bene comune « … i costruttori non possono che essere i cittadini: tutti i cittadini, con i compiti più svariati: dai più umili ai più alti. In altre parole, da quelli che del cantiere – la città – portano le maggiori responsabilità, a quelli che compiono i servizi meno appariscenti, a quelli che possono sembrare, e in un certo senso sono, esterni al cantiere» (Giuseppe Lazzati).

Per cui, ogni uomo è chiamato a divenire un uomo integrale, raggiungendo il massimo di sviluppo umano che gli è possibile nelle concrete situazioni in cui vive e ciò può avvenire se si “umanizza” la città anche con un assetto urbanistico che recuperi il contesto del centro antico e valorizzi le periferie stratificate da avvenimenti destrutturanti (terremoti, etc).

Rendere umana la comunità degli uomini

Permettetemi di parlarvi anzitutto da cittadino, senza pretesa di avere soluzioni, e senza la sicurezza di risposte pre-codificate. Certo, resto un cittadino a cui, con umiltà e spirito di servizio, è consentito osservare le dinamiche sociali che attraversano la nostra realtà locale; vescovo, in greco, vuol dire proprio questo: colui che osserva, e che per questo può sorvegliare, custodendo. Da questa posizione, che non mi mette più in alto di nessuno, ma che mi espone forse più di altri a raccogliere istanze e bisogni, mi permetto fermare ciascuno di noi, richiamando ad una comune responsabilità per la città e il nostro territorio con una crescente difficoltà delle famiglie, la disoccupazione, le apprensioni per il lavoro ed un incremento di povertà come l’osservatorio permanente della Caritas diocesana segnala quotidianamente. Tutto ciò è allarmante. Non è più il tempo di occupare spazi, ma di assumersi il carico di sociali responsabilità! Sono, con i nostri parroci, impensierito dalla fuga delle migliori risorse umane e dei giovani. Da parte di chi ha l’onere di governare la città e i nostri territori interni si tratta di non smarrire il dovere di «rendere umana la comunità degli uomini» (Z. Bauman, Fiducia e Paura nella città, Milano, 2005) che non è responsabilità esclusiva dell’autorità o della politica, ma di ciascuno, secondo il proprio ruolo, con le proprie scelte; penso alle forze sociali, all’imprenditoria, ai corpi intermedi, alle strutture sanitarie che hanno avuto difficoltà in questi giorni sofferti della pandemia, al commercio, alle realtà educative, alle strutture di accoglienza (alberghi, agriturismi, ristorazione, etc), all’agricoltura con i suoi prodotti di eccellenza ma priva di un condiviso progetto di sviluppo.

Mi pare che tale situazione richieda, trattandosi del bene comune, che ciascuno di noi è costituito in “autorità”, perché ciascuno di noi è legato al destino dell’altro da una corresponsabilità che non viene mai meno, anche se la si ignora.

Non vanno inseguiti obiettivi di piccolo cabotaggio: va presa coscienza di essere in ‘mare aperto’… «riconquistando il valore della “consapevolezza” intesa come “start up di comunità e di dialogo” (con)… concreti obiettivi da raggiungere a vantaggio delle realtà territoriali più emarginate di questa nostra parte di Paese» (La mezzanotte del Mezzogiorno, lettera dei Vescovi della Metropolia di Benevento, 13 maggio 2019).

Esigenza – spazio – riflessione: una proposta

Dal senso di questa comune responsabilità – senso che va ritrovato e trasmesso alle nuove generazioni – nasce l’esigenza di ritrovare spazi per una comune riflessione sulle esigenze del nostro territorio. Mi siano consentite alcune puntualizzazioni.

Anzitutto, si tratta di un’esigenza che non può più attendere: si è già troppo atteso. I nostri paesi si sono svuotati; i giovani sono andati alla legittima ricerca di possibilità che non siamo stati in grado di garantire, non per colpa totalmente nostra; le famiglie hanno smarrito fiducia e per questo hanno messo da parte i loro naturali progetti.

Non si può più continuare con un passo rivelatore che «Politica e società ormai sono due corpi paralleli. Non è più come un tempo, quando la politica … scaturiva dalla realtà sociale. Oggi la politica vive una dimensione a sé stante, segue delle logiche interne avulse da quanto avviene al di fuori del palazzo» (Giuseppe De Rita del Censis, Il Quotidiano del Sud del 22 maggio 2020), smarrendo quell’alta sua vocazione di essere “servizio” e “forma di carità”, come ricordava il papa Paolo VI.

Ci è richiesto di cercare spazi comuni, visioni e nuovo dinamismo. Il primo è quello di “creare l’occasione”, lo spazio. La responsabilità ecclesiale che ricopro tra voi mi mette nella condizione di poter essere anche io, attivamente, a creare queste occasioni: per questo, va accesa una luce, una collaborazione tra le istituzioni, tra persone che hanno o avranno compiti di responsabilità nel prossimo futuro nella città e nel territorio per perseguire spazi di sereno dialogo e confronto. Vanno aperti varchi, per rompere l’isolamento e per amore di questa comunità. La città di Ariano deve assumersi il ruolo che le compete per storia, geografia e oggettive possibilità inespresse, senza vivere di ricordi di un glorioso passato.

La premessa fondamentale è che siamo soltanto cittadini impegnati in una riflessione che richiede un apporto singolare, più prezioso di qualsiasi testimonianza.

Permettetemi di chiamarvi tutti ad una comune responsabilità.

Non c’è destino della ‘città’ distinto dal nostro destino

Più che di ‘abitare’, forse abbiamo bisogno di ‘ri-abitare’ la città, le nostre contrade, i territori; per fare questo è necessario acquisire la piena consapevolezza che il nostro destino è comune: non può distinguersi, non può separarsi. Se va a ‘fondo’ la città – intesa nel senso del territorio cui apparteniamo – andiamo a ‘fondo’ noi, le nostre famiglie, i nostri figli.

Non capiti anche a noi di essere contagiati dalla superficialità di quel contadino che dormiva nella stiva della nave e che, al compagno che lo sveglia allarmato perché il bastimento stava per affondare tra onde altissime, rispose sereno: «che me ne importa, non è mio».

Da pastore sento di dover condividere avendo a cuore il bene integrale di ciascuno, della nostra città, dei nostri territori, del futuro delle nuove generazioni.