Testimoniare il bene nella tragedia. L’esempio di Etty Hillesum

Testimoniare il bene nella tragedia. L’esempio di Etty Hillesum

di mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio

“A tratti la vita è anche in me semplice, grande e chiara. Sono i momenti migliori. Non conosco momenti più felici di quelli in cui mi rendo conto che la vita è davvero semplice” (E. Hillesum, Diario).
Etty Hillesum è stata una scrittrice olandese ebrea vittima dell’Olocausto. Perché citarla ora? Perché in questo momento, più che mai, occorre “un cuore pensante”, come ella amava definirsi.
Un cuore che non si arrende al tempo che stiamo vivendo, fatto di paura, di sacrificio e di perdita dei riferimenti esistenziali essenziali, un cuore al quale bisogna saldare la fede, nella certezza che le nostre vite hanno un valore grandissimo agli occhi di Dio, come ci ha ricordato, con un messaggio pieno di
speranza, il Dicastero per i laici, la Famiglia e la Vita, proprio in occasione della grande sofferenza che il mondo sta provando, in questi giorni di espansione dell’epidemia del Coronavirus.
Le parole della Hillesum mi vengono in mente, nell’accerchiamento di questi giorni, nell’isolamento forzato, ma anche nell’evidente fatica di pensare che comunque l’altro sia un bene per me, proprio perché essa stessa vittima di un altro potentissimo “virus”: l’odio che ha portato all’Olocausto. Vittima eppure vittoriosa, da come si evince dal suo Diario, nella crescita della sua interiorità, potente antidoto all’insensatezza del male. In questi tempi di restrizione e di digiuno di quotidianità, di riduzione della nostra vita di relazione, ripercorrere le pagine del suo “Diario” significa rivolgersi alla nostra vita interiore, sempre più affamata.

Il dialogo con la nostra spiritualità deve diventare un dialogo con Dio, scevro dall’imbarazzo, dalla paura, dall’opportunismo, che faccia coincidere la scoperta di sé, con la scoperta di Dio in sè. Qualcosa che ci aiuti ad accantonare l’odio per i colpevoli, per aprirci alla fiducia verso il Creatore. Come sosteneva
Sant’Agostino quando ci ricordava che la vera potenza di Dio non consiste nell’impedire il male, ma nel saper trarre il bene dal male, così fa Etty Hillesum, con quella sua voce individuale ed intima ma serissima, pienamente consapevole del fatto che lo sterminio sia imminente e tuttavia trova la forza di scrivere. “E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza
amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita”. Nella più totale impotenza di fronte alla catastrofe, Etty riesce a rivolgersi a Dio con l’innocenza della vittima sacrificale che vuole essere balsamo per le ferite del mondo. Ora mi sembra il tempo di percorrere i sentieri della differenza, di farci tutti unguento, per i nostri cari, anche se ora li sentiamo un po’ più lontani, per stare con loro, nelle loro paure, soprattutto, nelle paure degli ammalati, che vivono un doppio e ben più pesante disagio.
Occorre, come scrive Fratel Michael Davide “occuparsi senza pre-occuparsi”, abbandonandoci al mistero della Croce che Gesù, ogni giorno, ci chiede di portare e, per questo, il legame tra preghiera ed amore deve essere assoluto. In questo, la Quaresima che stiamo vivendo, ci offre, attraverso il digiuno, la preghiera ed il silenzio, un’occasione propizia per purificare il nostro io interiore, dall’egoismo eccessivo. Per questo tempo così difficile, che tocca col dolore l’intera umanità, dobbiamo riuscire a cogliere nel reale una radice di speranza, registrando gesti più umani e solidali perché …non siamo inguaribili, siamo in guarigione. Non facciamoci cogliere dal panico, cerchiamo di accogliere quello “straniero” che
non ci ha dimenticato, che è Dio, e che ora vuole ricordarci, come quel verso del poeta Rilke: “Io sono con te”.

Per Etty Hillesum l’esperienza della fede passa attraverso una scoperta interiore (attraverso l’introspezione, una guida, le sue letture preferite: Rilke, Dostoevskij, Sant’Agostino, i Vangeli …) della presenza e azione dello Spirito che le suggerisce di dedicarsi totalmente alla cura delle sofferenze degli altri e alla condivisione nel campo di concentramento di Westerbok (Olanda), prima della soluzione finale ad Aushwitz. Non è una fede confessionale quella di Etty Hillesum, nel senso di appartenenza a una determinata chiesa o religione, ma non è neppure semplicemente un generico sentimento di amore. Essa passa attraverso la scoperta di un Dio vicino, dentro di sè, da disseppellire dalle macerie in cui la società e i tempi, ma anche le proprie preoccupazioni individualistiche, l’hanno sepolto; della preghiera, che Etty ha imparato anche nell’inginocchiarsi; dell’amore alla vita in tutte le sue manifestazioni; dell’amore agli altri; del “distendersi” e trovare la serenità nella natura; della incapacità di odiare, anche il nemico.
“Prometto di vivere questa vita fino in fondo, di andare avanti. E alla fine di ogni giornata sento il bisogno di dire: «la vita è davvero bella». Il senso della vita non è soltanto la vita stessa” (Etty Hillesum, Diario): che amore per la vita nonostante il campo di concentramento! L’unica lezione che una guerra ci insegna e che la Hillesum in modo potente ci richiama, è che bisogna riparare e ripartire, riparare le brecce dentro di noi, anche se si sta dentro l’inferno del reale, organizzando una vera e propria
resistenza. La logica del “guarire per guarire” che ci impone di fare i conti con le nostre contraddizioni, per sentire la storia di tutti gli uomini come una storia di dolori, ci coinvolge nella profonda convinzione di trovare bella la vita, facendomcredito a Dio nella sua purità assoluta, senza sentirlo lontano o peggio ancora indifferente. Un modo totalmente diverso, dal nostro, di intendere Dio tra il dolore ed il bisogno degli uomini, poiché proprio nel cuore della catastrofe, che spingerebbe a mettere in dubbio ogni cosa, bisogna trovare il coraggio di rinegoziare le convinzioni più profonde: “Credo in Dio e negli uomini ed oso dirlo senza pudore”. (E. Hillesum, Diario).

In questi giorni, una immagine particolare è diventata virale, quella dell’arcobaleno. Lo stesso  arcobaleno che, in una lettera indirizzata ad una sua amica e datata 7 agosto 1943, Etty vede sopra il campo di sterminio. Quanto è meravigliosa la mente umana che riesce a disfarsi delle macerie della realtà, per cogliere la bellezza delle contingenze? L’arcobaleno diventa il simbolo della speranza, della ricerca del sereno, dell’unione di colori diversi, di una preghiera sobria di parole ma densa di significato. Questo è il senso di una resa incondizionata alla divina Presenza: la possibilità di raccogliere frutti di speranza, sebbene, a volte, la notte della preghiera inesaudita, ci appaia buia e terribilmente
paurosa. Bisogna percorrere una sola strada, con coraggio e dignità, ed è un sentiero che ci apparirà dolce solo se impareremo a pregare per amore e non per quell’urgente bisogno di essere esauditi.
E’ questa la sfida vera del nostro tempo : quella di accettare la preghiera come una intima congiunzione con Dio e non come un accesso privilegiato o un sgravio dalla fatica. La vita di Etty ci insegna a non perdere il coraggio, ognuno dentro il proprio Olocausto, perché nulla di ciò che ci accade intorno potrà
spegnerci, potrà spegnere i nostri sogni ed i nostri desideri di vivere e di collaborare alla ri-evoluzione dell’umanità. Etty non è sopravvissuta al suo Olocausto, ma rileggerla oggi, ci restituisce la misura di un’altra vittoria, quella della forza del desiderio che si piega davanti alla potenza di Dio e che inclina, in
una sola direzione, anche le spiritualità più frizzanti.
Se, per ricordare Kierkegaard, “ci vuole coraggio morale per soffrire e coraggio religioso per godere”, vi invito a ritrovare la speranza del godimento, facendo da traduttori, attraverso il dolore di queste ore, del significato profondo della vita: riscoprire la tenerezza, ripercorrere i nostri campi di concentramento
interiore, ritrovarli negli occhi di chi si ammala, di chi muore, senza averne paura, cercando, non più l’altro necessario ma l’altro superfluo, ripartendo dal superfluo per adornare la vita di senso, per far attecchire quello stesso senso che, oggi, ci sembra così vacillante e che domani sarà il seme di una ri-nascita potente.
Vedete: è l’angoscia la vertigine della libertà, è il senso di vuoto che anela alla pienezza che ci restituirà il coraggio per soffrire e per agire.

L’11 Luglio 1942 così annota Etty Hillesum: “E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio … Qui gli ebrei si raccontano delle belle storie: dicono che in Germania li murano vivi o li sterminano con i gas velenosi … Ieri è stato un giorno pesante, molto pesante; ho dovuto soffrire molto dentro di me, ma ho assorbito tutte le cose che mi sono precipitate addosso, e mi sento già in grado di sopportare
qualcosa in più. Probabilmente è di lì che mi viene questa serenità, questa pace interiore … Non mi faccio molte illusioni su come stiano le cose veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di «aiutare Dio» il più possibile, e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che sapròesserci anche per gli altri” (Diario).
Atteniamoci a tutte le precauzioni che oggi ci sembrano fin troppo restrittive, perché saranno, domani, la porta di accesso ad un amore più grande, più conviviale e, per come questa pandemia ci sta insegnando, meno egoista. “Se vuoi proprio guarire devi vivere diversamente: devi tacere per giorni interi e richiuderti in camera tua e non lasciare entrare nessuno, è l’unico modo. Si dovrebbe pregare giorno e notte per tutti. Non si dovrebbe stare neanche un minuto senza preghiera. So che un giorno avrò il dono dell’eloquenza” (E. Hillesum, Diario).
Buon cammino interiore a tutti, insieme con questa grande testimone del ventesimo secolo e insieme con tutti i testimoni che costituiscono il tesoro dei Santi in cielo.