Card. Betori: l’Eucaristia non è sentire Gesù vicino a noi, ma è una presenza reale

Card. Betori: l’Eucaristia non è sentire Gesù vicino a noi, ma è una presenza reale

Gesù, nell’ultima cena con i Dodici prima della sua Passione, compie due azioni: la lavanda dei piedi e l’istituzione dell’Eucaristia. La lavanda dei piedi è un gesto simbolico che, unito alla parola, si propone come un insegnamento. Chinandosi ai piedi dei discepoli, per fare ciò che era compito degli schiavi verso i propri padroni, Gesù rivela il modo in cui egli vive il suo essere Messia, come il Servo venuto a consegnarsi all’umanità: «Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). Un amore , quello del Figlio di Dio, che lo ha portato a svuotare se stesso, a rinunciare a ogni dignità, a umiliarsi, a consegnare la propria volontà nelle mani del Padre e quindi nelle nostre mani, di noi che la misericordia del Padre voleva fossimo salvati.

Nella lavanda dei piedi non abbiamo soltanto la rivelazione di chi è davvero Gesù, ma anche un’indicazione di vita per noi. Gesù stesso lo dichiara: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,14-15). La misura dell’essere discepoli di Gesù è la capacità di porsi l’uno di fronte all’altro non per rivendicare i propri diritti, neanche nella prospettiva di uno scambio alla pari – amare quelli che ci amano –, ma nel sottomettersi agli altri nel servizio. E servire, per il discepolo di Gesù non è fare qualcosa per chi è nel bisogno, ma stare davanti agli altri come schiavi, nella consegna totale di sé, della propria intera esistenza; vivere per gli altri e non per se stessi.

Questo è il volto della comunione che nasce dal seguire Gesù: una fraternità che scaturisce dal dono della vita. Proviamo a pensare che cosa questo potrebbe innescare nel rigenerare la vita delle nostre famiglie, nel dare anima ai rapporti sociali, nell’illuminare un modello economico nuovo, nel ripensare la nostra responsabilità di custodi del creato.

Ho letto che un noto periodico inglese, in questo tempo di pandemia, si è chiesto: «Fino a quando potremo permetterci di dire che una vita umana non ha prezzo?». Per un certo mondo che conta, la domanda, il problema non sarebbe la vita della persona umana, il suo inalienabile valore, ma l’eccessivo costo economico che la società deve pagare per prendersene cura. È così svelato, senza vergogna, il criterio ultimo che regge questo mondo secondo gli eredi dei padroni delle ferriere, gli spregiudicati manovratori dei mercati finanziari, gli interpreti di certa comunicazione: il denaro, non l’uomo. Amara constatazione, ma che non dovrebbe meravigliarci: sappiamo come il corso della Passione del Signore sia cominciato con valutare la sua vita a un prezzo, il prezzo di sangue, trenta denari.

E veniamo all’altra azione che Gesù compie nell’ultima sua cena prima della morte, l’istituzione dell’Eucaristia. Questa non è un’azione simbolica, ma un atto in cui parole e gesti danno vita a una realtà, che da allora si ripete ogni volta che se ne fa memoria, come attesta la tradizione che san Paolo raccoglie nella sua lettera ai cristiani di Corinto: «Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”» (1Cor 11,23-25). L’Eucaristia non è sentire Gesù vicino a noi, presente al nostro cuore. L’Eucaristia è una presenza reale: pane e vino fatti Corpo e Sangue di Cristo per diventare nostro cibo, così che noi diventiamo lui e, uniti a lui e da lui, diventiamo una cosa sola tra noi.

Questo realismo del sacramento è connaturato alla nostra fede cristiana, che nell’incarnazione del Figlio di Dio ha non solo la misura della compromissione di Dio con l’umanità, ma anche la porta d’accesso al mistero stesso di Dio Trinità. Il farsi carne del Figlio ci svela il volto del Padre e la forza vitale dello Spirito. Il legame tra la dimensione divina e quella umana, inclusa la corporeità, è qualcosa di essenziale per la nostra fede e connota tutte le sue manifestazioni, a cominciare da quelle sacramentali: acqua, pane, vino, olio, il corpo degli sposi.

Vorremmo che fosse più valorizzata la sofferenza che abita in questi giorni il cuore dei credenti, ai quali è difficile comprendere come sia reso difficile, praticamente impossibile, l’accesso all’Eucaristia, ritenuto da alcuni, con troppa disinvoltura, un bene non essenziale della vita. Sarebbe stato apprezzato un tentativo in più per non negare qualcosa di essenziale per i cristiani, fatte salve le doverose precauzioni dettate per l’accesso ai beni primari materiali.

Non è questo però il momento del lamento. Abbiamo più volte ripetuto che non ci sottraiamo come cittadini a disposizioni con cui si cerca di limitare l’espandersi del contagio virale. Anzi, da cristiani, riteniamo questo nostro sacrificio come un atto di carità offerto ai più fragili, un atto in cui davvero ci svuotiamo, come Gesù, di noi stessi, perdiamo qualcosa che ci appartiene per identità di fede, cioè l’Eucaristia, e questo lo facciamo per servire i fratelli, come schiavi. Ne siamo convinti e così ci comportiamo.

Alcuni hanno chiesto ai vescovi di disattendere norme concordate tra le autorità religiose e civili per il bene comune. Sono voci che esprimono istanze spirituali che rispetto, ma che esorto a vivere proprio nell’orizzonte comunitario di cui si rivendica la visibilità. Non vorrei però che istanze di questo genere scaturissero da un’errata concezione della dimensione comunitaria dall’azione liturgica, quasi che il fondamento del culto sia l’assemblea e non l’azione di Dio in essa e per essa. Non sono annotazioni marginali, perché ne va della concezione della salvezza, che scaturisce sempre e solo dalla grazia, pur prendendo forma nella vita personale e comunitaria.

Ma la nostra riflessione deve andare oltre, per chiederci se non appartenga proprio alla natura dell’Eucaristia e quindi ai suoi effetti, riconoscere nella carne del fratello la continuità del Corpo e del Sangue di Cristo che l’Eucaristia ci dona. L’umanità che Gesù ha assunto, diventando carne nel grembo di Maria, è la stessa umanità di cui è fatto ogni uomo e donna. Se è così, ed è così, la strada è tracciata senza esitazioni di fronte a noi. Come nulla può andare perduto del Corpo e Sangue di Cristo, così dobbiamo farci carico della cura dei corpi dei nostri fratelli nella sofferenza. Contribuire a questo – direttamente come fanno meritoriamente quanti operano nella sanità, e indirettamente con l’adesione generosa di ciascuno ai limiti imposti nella pandemia – è il volto eucaristico chiesto alla vita di fede oggi. È il modo con cui obbedire alla parola dell’apostolo Paolo: «Quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri» (1Cor 11,33). Servire il Corpo di Cristo nel corpo dei fratelli darà autenticità ai gesti comunitari che faremo quando finalmente potremo tornare a riunirci come assemblea eucaristica.