Se mi buttano in acqua, nella mia goffaggine cerco di stare a galla, calmarmi e poi provare qualche
bracciata, ricordandomi come si fa d’estate. Ci posso provare, cerando di vincere la paura e il senso di
smarrimento. Ci possono provare anche la nostra cultura e le nostre spiritualità: dentro la fatica e lo
sconcerto, a dar nome e senso a quanto sta accadendo. Per qualcuno una proiezione disperata, per altri
l’inizio o la ripresa di un dialogo. Comunque, per tutti, un esercizio profondamente umano, che a nessuno dovrebbe essere precluso. Sono i giorni della biologia e della tecnica: costruiamo un ospedale da campo e cerchiamo di moltiplicare gli sforzi per i letti di terapia intensiva e per ridurre il contagio. Ma sono anche i giorni del pensiero, del lutto e della condivisione.
Tutto sembra così terribilmente debole: debole il cordoglio, privato della sua più naturale forma, la vicinanza; debole la socialità, ridotta quasi a zero e compressa nelle piccole o grandi abitazioni; debole la tenuta di tutto, anche della scuola che si ripensa online, ma non riesce del tutto nel suo scopo, perché scuola è innanzitutto spazio, contatto, confronto, sguardi e suggerimenti (anche quelli durante i compiti in classe). Sembra debole anche la religione: fermi gli atti di culto, mute tante campane, tanti preti morti, come purtroppo accade in tante, troppe famiglie.
Siamo in una cultura ormai lontana dai dibattiti su certe responsabilità (Dio, il caso, la necessità…); abbiamo forse preso congedo da certi scenari, perché nella vita ordinaria, disincantata e ben ritmata, tutto pareva sotto controllo; sino a qualche settimana fa. E non contava molto se a Lesbo o in Libia, non molto lontano da noi, le grida erano comunque assordanti. Andava bene così. Potremmo dire – esagerando forse con il cinismo che non è di tutti – mors tua vita mea. Senza tanti complimenti.
Ai cercatori di senso, a chi prova a nuotare comunque, compare davanti questo scenario di grande debolezza, dove tuttavia si resiste; e dove i toni dell’arrogante trionfo di questa o di quella idea sono pallidi ricordi. Molti pregano, anche in casa, e scoprono che più si prega, più il senso di quel gesto, sospeso tra parole e silenzi, letture e sguardi, ha il sapore che persone più esperte di noi in umanità ci hanno sempre ricordato: alimentare la forza di essere umani, dismettere i panni della prepotenza, avvertire di essere parte di una vita più grande e – se possibile – bussare alla sua origine, all’Amore che l’ha chiamata ad esistere. Senza il fatalismo di chi si arrende; senza l’atteggiamento magico di chi ricorre a formule oscurantistiche.
Se Dio c’è, è lì, come ricorda la crudezza del crocifisso che non è solo un antieroe dell’amore; è per il Cristianesimo il destino stesso di Dio, il suo linguaggio più vero. Forse abbiamo tanto insistito sulla sua onnipotenza, letta ovviamente secondo il nostro metro che Dio è diventato la proiezione infinita dei nostri desideri finiti. Una tentazione sempre accovacciata alla porta di chi crede. E così la mia fede è diventata una religione chiusa, autosufficiente e, forse, ha prestato il fianco alla magia. Solo che prima, di questa magia non avevo bisogno.
I nostri nonni ce l’hanno sempre insegnato: stavano nella vita, povera e asciutta, con il coraggio della realtà e maturava in loro una fede tutt’altro che magica. Era la fede di chi certo non aveva studiato, non aveva letto dei maestri del sospetto o di Tommaso. Ma non era una fede ignorante. Forse di ignoranti sì, cioè di illetterati e di non laureati. Ma non una fede ignorante, perché dentro c’era una sapienza del vivere. Un vivere diverso dal nostro, che forse noi non desideriamo, perché siamo legittimamente altro, anche per merito loro. Ma ora è il tempo della stessa debolezza e – forse – della stessa fede.
don Paolo Arienti, incaricato diocesano Pastorale Giovanile