Che cos’è l’esperienza del dolore? Che cosa rappresenta per una persona il soffrire? Il dolore in primo luogo è un danno, una perdita. Ci ammaliamo e non possiamo più fare quello che facevamo prima. Lavoravamo e non siamo più in grado, incontravamo tante persone e non le reggiamo più, sceglievamo come impiegare il nostro tempo e ora dobbiamo sottostare ad altri ritmi. Col corpo noi solitamente percepiamo il mondo: agiamo, ci muoviamo, afferriamo le cose, entriamo in relazione con gli altri. Quando ci ammaliamo il corpo diventa una barriera e non è più uno strumento di comunione. Coi denti mastico e non penso mai di averli in bocca, ma se mi duole un dente lo sento e lo percepisco come una barriera che mi impedisce di mangiare.
Il dolore ci fa sentire soli, ci isola dalla realtà, dalle relazioni con gli altri. D’un tratto le persone assumono un volto differente. Alcuni che ritenevamo vicini si fanno lontani; altri spariscono del tutto; altri ancora ci riversano addosso parole vuote, inutili, del tutto inadeguate; altri poi raccontano solo di sé, narrando esperienze personali lontane e nemmeno paragonabili al dolore che stiamo provando; ci sono poi coloro che si parano dietro il galateo e dopo mesi di assenza dicono che non ci sono stati per non disturbare, per evitare di affaticarci. Il numero degli amici si assottiglia, il gruppo di coloro che sanno starci vicino si fa esiguo.
Nel dolore noi ci interroghiamo: «perché soffro?», «perché proprio a me?», «perché capita proprio a quella persona che mi è cara?». Ci sfiora sempre l’idea che il dolore patito sia la conseguenza di un peccato, che noi in qualche modo stiamo espiando una colpa, che in fondo la sofferenza sia un castigo dall’alto. Ci chiediamo: quale colpa, quale peccato, quale male abbiamo commesso? E spesso non troviamo risposta perché in effetti non abbiamo alcuna colpa, non ci siamo macchiati di alcun peccato, non abbiamo commesso alcun male. Ma di nuovo: «perché, allora, innocente soffro?».
Anche l’isolamento di questi giorni è un’esperienza di sofferenza. Forse non ci pesa tanto la distanza fisica, quanto più il sospetto che qualunque persona possa essere un potenziale nemico e noi, reciprocamente, possiamo diventare untori inconsapevoli di un male oscuro e nascosto. Se proprio per mezzo del sospetto il serpente ha inoculato il veleno del peccato nel cuore di Eva e di Adamo, vivere questa sistematica paura di tutto e di tutti fa percepire un fastidioso senso di colpa che vorremmo scrollarci di dosso senza però riuscirvi.
Le reazioni
Quali sono le nostre reazioni nel tempo della sofferenza? Sono molte e differenti, spesso legate al nostro carattere, al nostro temperamento, alla nostra storia.
Una prima reazione è l’urlo. Gridare è far percepire ad altri che ci siamo, che soffriamo, che invochiamo aiuto. Quando il bambino piange chiede a sua madre di accudirlo e la donna si sente in colpa fintantoché quell’esserino uscito dal suo grembo non è tranquillo in pace. Il grido però non è sempre in gola; spesso è un urlo interiore, un urlo sordo ma fortissimo perché dice che così non può essere, che la vita nel dolore non può avere senso.
C’è una seconda reazione: è la preghiera. Per chi crede l’angoscia dei giorni spesso prende la strada del dialogo con Dio. Si guarda al Signore, ci si rivolge a lui, si formulano orazioni e voti, si assaporano le parole di preghiere apprese da piccoli, qualche volta un po’ dimenticate ma che d’un tratto esprimono fiducia e affidamento. La fede è nuda, appesa ad un filo, per quanto di speranza.
La terza reazione è il silenzio. Un silenzio grave, solenne, denso. Non è il mutismo impacciato di chi non sa che cosa dire o come iniziare un discorso. È il silenzio di chi ha provato tutti i linguaggi (quelli della parola e quelli del corpo, quelli della fede e quelli del pensiero) e ora tace. Tace perché si rende conto che non ci sono parole adeguate per dire il senso del dolore, per definire, cioè comprendere lo scacco della vita.
Ho voluto indugiare un poco su queste immagini perché tutti le conosciamo o le conosceremo. Questa è la nostra vita, questa è l’esistenza di noi uomini sulla terra. Chi si illudesse del contrario, andrebbe incontro ad una cocente delusione, appesantita dal risentimento di non aver mai guardato in faccia l’esperienza degli altri.
Il Venerdì santo
Noi celebriamo il venerdì santo. Ancora una volta, dopo duemila anni, adoriamo un uomo, Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio, che è morto appeso ad una croce. Mentre il mondo di allora guardava a quel supplizio come alla più orrenda condanna, proprio così ha voluto rivelarsi il nostro Dio.
Gesù sulla croce mostra un corpo martoriato, abusato, vilipeso. Gesù sulla croce è solo, abbandonato da tutti i suoi discepoli fuggiti per codardia. Gesù sulla croce urla, invoca Dio, poi tace e attende la morte.
La sua storia è la storia di ogni uomo, la sua sofferenza non differisce da quella di ogni persona sulla terra.
E allora perché noi adoriamo il crocifisso? Perché veneriamo quella croce? Che cosa c’è di speciale in quell’uomo che soffre e che muore?
A guardarla da qui, dal venerdì santo questa storia è una storia umana come tutte, è una vicenda come la vicenda di ogni uomo.
Una storia che continua
Questa storia, però, non si è arrestata al venerdì santo. Il Signore è risorto, ha vinto per sempre la morte. Dal sepolcro la vita è deflagrata! Ed è proprio a partire da quella tomba vuota del mattino di Pasqua che noi facciamo un passo indietro al venerdì santo e ci chiediamo: «perché il Signore ha voluto soffrire così?», «perché Gesù è morto su una croce?». Pensando alla potenza del Risorto guardiamo alla croce. E comprendiamo che Dio non ha intenso mostrare la sua forza, la sua potenza, la sua giustizia. Piuttosto ha abbracciato la nostra povera umanità, ha condiviso sino in fondo la nostra sofferenza, sino alla morte di croce.
Guardo la croce: non vedo un dio che trionfa, ma un uomo che muore. Guardo la croce: non si manifesta un dio che schiaccia i suoi nemici, ma un uomo che perdona. Guardo la croce: non c’è un eroe che si spezza ma non si piega, bensì un uomo che patisce come tutti. Se non fosse così Gesù sarebbe solo un trionfatore, un giudice, un personaggio mitico. Ma che bisogno abbiamo noi dell’ennesimo vincitore, dell’ennesimo uomo pieno di sé, dell’ennesimo mito?
Guardo la croce: non è un mistero di forza e di giustizia, ma un mistero di compassione e d’amore. Colui che ha trionfato sulla morte, l’ha condivisa fino alla croce, perché nessun uomo si senta abbandonato, ma tutti, guardando al Dio crocifisso, possano comprendere la grandezza dell’amore di Dio che li tocca.
Che cosa lascia la croce in ciascuno di noi? Lascia un bene che nessuno può darci: la certezza dell’amore fedele di Dio per noi. Un amore così grande che entra nel nostro peccato e lo perdona, entra nella nostra sofferenza e ci dona la forza per portarla, entra anche nella morte per vincerla e salvarci. Nella croce di Cristo c’è tutto l’amore di Dio, c’è la sua immensa misericordia.
don Matteo Crimella, Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano