Cosa avrebbe fatto Gesù?
A pochissime ore dalle dichiarazione del premier Conte sulla fase 2, ritenuta da molti un debole alleggerimento di fase 1, si è sollevata una miriade di vespai di protesta per una ripartenza ancora lontana. Non solo sul versante delle attività produttive e della vita sociale, ma anche per la vita liturgica dei cattolici. La Conferenza Episcopale Italiana, accusata da tanti di essere stata troppo accondiscendente con le prime richieste/pretese del Governo sullo stop alla partecipazione dei fedeli alle celebrazioni eucaristiche, ha diramato in tempo record un comunicato in cui dissente dall’ulteriore fermata. Dal tempismo della nota si evince il rapporto costante che i vescovi hanno avuto col Governo, mettendo a tacere chi ha accusato la CEI di latitanza in questa fase. Tuttavia, la reazione immediata e capillare è stata quella della protesta su almeno due fronti: da una parte, coloro che sostengono il diritto costituzionale alla libertà di culto e alla necessità di riprendere subito la vita liturgica e pastorale, anche se con protocolli di sicurezza e previdenti norme anticontagio; in questa fazione sono presenti soggetti che puntano il dito contro chi ha avuto e ha la responsabilità nella conduzione del gregge e sostengono una levata di scudi immediata, quasi una disubbidienza doverosa. Dall’altra, una fazione che crede si debba essere più pacati e rispettare per primi le norme del Governo, senza chiedere privilegi o rivendicare favori. A dire la verità, c’è anche chi si trova in una posizione mediana, sostenendo una lenta ripresa delle celebrazioni comunitarie con criteri che possano rispondere alle regole, riservando una certa autonomia nella gestione delle assemblee. Ciò detto – niente di nuovo e di sorprendente per chi legge – occorre comprendere in che modo deve ragionare la comunità credente per evitare di cadere nelle paludi del pensiero politico (di parte!) o di quello dei diritti civili o economici (di parte!). Il rischio è quello di evidenziare sentimenti di cameratismo religioso o, d’altra parte, di politicamente corretto. Quando nel VI sec. a.C. un’alchimia di poteri tremendamente interessati portò alla distruzione del tempio di Gerusalemme – baluardo indiscusso della presenza di Dio sulla terra – la popolazione giudaica, soprattutto l’élite pensante, venne deportata a Babilonia e privata della sua pratica cultuale e sacrificale. In quella terra di esilio nacque la liturgia sinagogale al cui centro si trova la Parola come nuovo ambito per entrare in contatto con Dio a partire dalla storia del popolo e della persona. Dopo la definitiva distruzione del tempio del 70 d.C. a opera dei romani la comunità giudaica e quella cristiana nascente cercarono in quell’evento così tragico una ragione di vita e di fede. I battezzati si chiesero chi era Gesù e soprattutto cosa avrebbe fatto il Maestro. Questa domanda ha permesso alla comunità di annunciare il vangelo di Gesù in modo pregnante e inculturato. Anche oggi, in questo momento di smarrimento, anziché dividerci, puntarci il dito, cercare ragioni nel diritto comune, sarebbe opportuno chiederci senza nasconderci: cosa farebbe e direbbe Gesù oggi?
Il direttore, Michele Antonio Corona
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