Carissimi fratelli presbiteri, diocesani e religiosi, Vi scrivo questa lettera, oggi Mercoledì Santo – nell’ora in cui avremmo dovuto celebrare la Messa del Crisma – per unirmi spiritualmente a ciascuno di voi e per condividere alcuni pensieri sul sacerdozio e sul mistero grande della nostra Fede, la Pasqua del Signore, che, quest’anno, celebreremo in modo insolito e sofferto, nel rispetto delle misure sanitarie che ci impongono di celebrare anche il Triduo Pasquale “senza popolo e con le porte delle nostre chiese chiuse”.
Vi scrivo alla vigilia del Giovedì Santo, giornata sacerdotale per eccellenza, soprattutto per dirvi ancora una volta tutta la mia vicinanza fraterna, il mio incoraggiamento e la mia stima grata.
Come già vi ho comunicato precedentemente, quest’anno la Messa Crismale, di comune accordo con i confratelli Vescovi di Basilicata, è rinviata: la celebreremo, infatti, non appena si concluderà questo periodo di grave emergenza sanitaria, che sta diventando, purtroppo, anche emergenza economica e sociale.
Tutti desideriamo che questo tempo di prova si possa concludere quanto prima; il comune desiderio che la pandemia possa cessare sia trasformato sempre di più in una intensa preghiera di intercessione alla Divina Misericordia per mezzo del Cuore immacolato e addolorato di Maria.
La Liturgia del Giovedì Santo, con le parole e i gesti sacramentali, ci fa rivivere l’ultima Cena di Gesù: mistero dell’umiltà di Cristo e del suo amore per noi nella lavanda dei piedi; testamento del suo comandamento nuovo di amarci gli uni gli altri come egli ci ha amato; memoriale dell’istituzione dell’Eucaristia e del Sacerdozio per rendere presente fino alla sua venuta il sacrificio della nuova Alleanza.
Nella celebrazione della Messa nella Cena del Signore, che apre il Triduo Pasquale, tutti faremo memoria del giorno della nostra Ordinazione sacerdotale. Ricorderemo anche il cammino vocazionale che ad essa ci ha condotto, che per ognuno di noi assume il volto delle tante persone – dai nostri genitori agli educatori – che ci hanno accompagnato nelle diverse tappe della nostra vocazione sacerdotale. La decisione per il Signore, fatta in piena libertà e con il desiderio di servire la Chiesa, è una scelta che è per sempre, perché fondata sulla fedeltà di Dio! E’ una decisione di vita irrevocabile dinanzi a Dio, che ogni giorno sentiamo il bisogno di rinnovare; l’esigenza di rinnovare le promesse sacerdotali sgorga spontaneo dal nostro cuore soprattutto nel giorno del Giovedì Santo; la decisione vocazionale per il sacerdozio, in quanto scelta di seguire Cristo, povero, casto e obbediente, evoca sempre anche la gioia, che non deve spegnersi nel nostro cuore neppure nei giorni bui o difficili, quando siamo chiamati ad attraversare le valli oscure della nostra vita presbiterale.
Quest’anno la celebrazione del Giovedì Santo, purtroppo, non ci farà sentire la vicinanza calda e confortante del nostro popolo, delle famiglie, dei bambini, dei giovani e dei nostri cari anziani, sempre presenti e non è stata preceduta dalla gioia di incontrarci come presbiterio attorno all’unica mensa eucaristica, circondati da tutte le componenti del popolo di Dio, per rinnovare comunitariamente gli impegni assunti con la sacra Ordinazione e per accogliere gli Oli santi, con i quali ungere il nostro popolo, anch’esso partecipe dell’unico sacerdozio di Cristo.
Domani tutti celebreremo fondamentalmente da soli, come stiamo facendo già da un mese, anche se affiancati da qualche figura ministeriale. Celebreremo da soli, ma non in solitudine! La Chiesa, popolo di Dio, infatti è sempre spiritualmente viva e presente; essa è presente sempre, sia pure in modo non visibile, in ogni celebrazione dei divini misteri.
Questo tempo di prova, per ragioni di giustizia e di carità pastorali, deve farci sentire moralmente impegnati ad essere – come afferma sant’Agostino – “la coscienza vigile dei fedeli”. Questa espressione di sant’Agostino intende richiamare la necessità di non aver timore o ritegno di abbassarci – in ogni modo – a livello degli umili e semplici, scelti e prediletti da Dio (cfr. Mt 11, 25) pur di condurli all’intimità con il Signore. “I sacerdoti, diceva s. Faustina nel suo Diario – sono ceri accesi per illuminare le anime”.
La celebrazione del Giovedì Santo ci ricorda che la comunione è la sostanza del nostro ministero. Essa è anche il vero aiuto alla nostra vocazione sacerdotale in ogni sua implicanza sacramentale, pastorale e affettiva. La comunione è certamente un dono del Signore, ma è anche un’esigenza legata al sacramento dell’Ordine e un compito affidato all’impegno generoso di ognuno! Nella celebrazione della Messa nella Cena del Signore Gesù ci dona nuovamente questo grande dono. La Chiesa raccomanda sempre a tutti i sacerdoti, in quanto ministri dell’Eucaristia, di vivere questa tensione comunionale non solo in modo funzionale o formale, ma come vero segno dell’amore a Cristo, alla Chiesa e ai confratelli nel presbiterio.
La celebrazione della Pasqua, per noi come per i primi discepoli, è anche attesa dello Spirito, unica sorgente di ogni dono di grazia. Lo Spirito va invocato sempre nella certezza che Egli è donato, se si ama la Chiesa, se si è compaginati dalla carità. Sant’Agostino, dall’alto della sua dottrina, affermava con forza: “Siamo convinti o fratelli – diceva – che uno possiede lo Spirito Santo nella misura in cui ama la Chiesa di Cristo?”. Il Vaticano II nel promuovere la santificazione dei presbiteri l’ha chiaramente ancorata all’esercizio del ministero, ma essa non si dà efficacemente se non nella piena comunione ecclesiale e nella fraternità presbiterale. Il presbitero, sull’esempio di che ha dato tutto di sé amandoci di amore eterno, deve darsi tutto nel servizio pastorale per l’edificazione del corpo di Cristo che è la Chiesa. La celebrazione quotidiana dell’Eucaristia è la fonte e il culmine di una vita sacerdotale che vuole configurarsi a Gesù sommo ed eterno sacerdote.
Proprio pensando alla celebrazione eucaristica e al nostro ministero, voglio condividere fraternamente con voi una riflessione, che mi sta accompagnando in questi giorni. La nuova edizione in italiano del Messale Romano, approvata dai Vescovi nell’Assemblea di novembre 2018, è un evento che non mancherà d’interpellarci a livello liturgico. In particolare, ci porterà ad interrogarci ancora sulla effettiva recezione della riforma liturgica nella nostra Chiesa a più di cinquant’anni dal Concilio. Tra i diversi aspetti, desidero richiamare alla vostra attenzione l’esigenza di ridare un chiaro significato teologico-pastorale ai cosiddetti “fuochi liturgici” presenti nella zona absidale di un’aula liturgica, ovvero l’altare, l’ambone, la sede. Soffermandomi sulla “sede presidenziale” mi domandavo: io, nel mio ruolo di presidente dell’azione liturgica, colgo e faccio comprendere alla comunità il valore teologico della “sede presidenziale” dalla quale presiedo l’Eucaristia e guido le altre celebrazioni liturgiche?
La “sede”, probabilmente, rispetto agli altri fuochi liturgici, l’altare e l’ambone, non riceve sempre una particolare considerazione teologica e pastorale, se non in una prospettiva funzionale. La sede, nell’assetto liturgico di una Chiesa, è la “cattedra”. Gesù nel Vangelo di Matteo, in analogia alla “cattedra” di Mosè, ne parla in relazione agli scribi e ai farisei (Cfr. Mt 23, 16), ammonendo i suoi discepoli a fuggire da ogni forma di ipocrisia e di prevaricazione, tipiche di chi ama sedersi in cattedra per primeggiare e sovrastare sugli altri. Per Gesù la sua stessa vita è l’unica luce per guardare a tutte le “cattedre” nella comunità cristiana. Infatti i punti prospettici da cui guardare l’ufficio del presiedere all’interno della comunità è duplice: uno dal basso o uno dall’alto. La prospettiva dal basso è quella di chi lava i piedi (cfr. Gv 13, 1 -15) quella dall’alto, è la prospettiva di chi è sulla croce (cfr. Fil 2, 5-8). Questa luce dà forma al servizio dell’autorità nella Chiesa. Infatti, la “cattedra” dalla quale Gesù si è pienamente manifestato come il vero Pastore e la guida del suo popolo è la croce (cfr. Gv 12, 24-26; 32-33).
Noi siamo chiamati ad offrire il nostro servizio di presidenza a favore della comunità soltanto nel nome di Cristo e con il suo stile. Il nostro presiedere è sempre un servire.
C’è una bellissima preghiera del santo card. Newman, che potremmo fare nostra non solo nei giorni del Triduo Pasquale, perché può aiutarci a vivere nella carità di Cristo il servizio di presidenza liturgica e pastorale delle nostre comunità:
“Signore Gesù, nel prendere possesso di questa sede, chiedo a te che anzitutto tu prenda possesso di me al punto che ogni persona che accosto possa sentire la tua presenza in me. Rimani in me, Signore. Allora risplenderò del tuo splendore e potrò fare luce per gli altri, con lo sfolgorare visibile dell’amore che il mio cuore riceve da te”.
Questa preghiera del card. Newman è un chiaro invito per noi Pastori a fare del nostro ministero un progressivo crescere nella carità totale e gratuita (cfr. Fil 2,21) e a cercare unicamente le cose di Gesù Cristo. Ogni giorno, infatti, mi ricordo nella preghiera personale, quasi come invito ad un permanente esame di coscienza, delle parole di sant’Agostino: “non siamo vescovi per noi, ma per coloro ai quali dispensiamo la parola e il sacramento del Signore”. E ancora: “mentre mi sgomenta ciò che sono per voi, mi conforta ciò che sono con voi. Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano: quello è il titolo di un impegno ricevuto, questo invece titolo di grazia; quello fonte di pericolo, questo fonte di salvezza”.
Il pastore – ogni pastore nella Chiesa – è chiamato a testimoniare il suo amore a Cristo prendendosi cura del gregge non per vile interesse ma di buon animo e facendosi modello del gregge (1 Pt 5, 1-4). Così, il pastore, unito a Cristo si nutrirà del nutrimento stesso di Cristo e con esso alimenterà il suo gregge. Questa è la carità che viene chiesta al Pastore.
Facciamo nostre le parole del santo vescovo di Ippona: “per voi siamo come dei pastori, ma, sotto quel pastore, siamo con voi delle pecore. Da questo posto, siamo per voi come dei maestri, ma, sotto quell’unico Maestro, in questa scuola siamo vostri condiscepoli”.
Tutti noi, fratelli carissimi, soprattutto in questi giorni santi del Triduo Pasquale, dove ci è detto con chiarezza dalla Liturgia che il nostro ministero non è una funzione, ma nasce e si regge come unzione, avvertiamo nella nostra coscienza il timore d’essere pastori e percepiamo nel fondo dell’anima la gioia di essere cristiano (cfr. A. Trapè, Il sacerdote uomo di Dio al servizio della Chiesa, Roma 19852, 128).
Facciamo, quindi, sgorgare dal nostro cuore un grande inno di lode alla Misericordia di Dio per il grande dono del sacerdozio che ci è stato fatto mediante la sacra Ordinazione. Da quel giorno, e per sempre, il Signore si è fidato di noi e si è affidato a noi. La Chiesa, a sua volta, obbediente al comando del Signore, attraverso il rito dell’Ordinazione, ha posto tra le nostre fragili mani il grande mistero dell’Eucaristia, il Corpo sacramentale del Signore, e il grande Mistero della Chiesa stessa, il Corpo mistico di Cristo!
Proprio per queste ragioni e per esprimere anche attraverso un segno visibile la profondità del mistero di comunione che ci lega e ci pone a servizio di tutto il popolo santo di Dio che è in Melfi-Rapolla-Venosa, vi invito ad unirvi a me, domani Giovedì Santo, nel condividere, privatamente, nelle nostre chiese (a porte chiuse) un’ora di adorazione eucaristica, dalle ore 11,00 alle 12,00. Invitiamo anche i nostri fedeli ad unirsi a noi, da casa, a questa preghiera di adorazione eucaristica sacerdotale e per tutti i sacerdoti. L’adorazione che guiderò dalla Cappella dell’Episcopio di Melfi, come per tutte le celebrazioni in questo periodo di pandemia, sarà trasmessa in diretta sul profilo facebook Palazzo Vescovile Melfi e su Radio Kolbe.
Carissimi, approfitto di questa circostanza per farvi avere, in allegato a questa mia lettera, un bellissimo testo di Papa Benedetto XVI, l’omelia che egli pronunciò il 29 giugno 2011, in occasione dei suoi 60 anni di sacerdozio. Papa Benedetto, in quella circostanza ha offerto una bellissima riflessione a partire dalle parole dell’evangelista Giovanni “Non vi chiamo più servi, ma amici” (Gv 15, 15). Accludo l’omelia a questa mia lettera, per una vostra lettura spirituale; ve la segnalo semplicemente perché è molto bella e ricca di spunti. A me ha fatto tanto bene.
In questo Giovedì Santo, spiritualmente uniti al popolo santo di Dio, che è stato affidato alle nostre cure, ringraziamo il Signore per il dono del Sacerdozio ministeriale, dell’Eucaristia e del comandamento nuovo!
Carissimi,
Vi assicuro che porterò sull’altare voi stessi, le vostre comunità, le gioie e le sofferenze di ciascuno di voi. Unitevi a me con la preghiera e con l’ascolto della Parola di Dio e gusteremo la gioia che “pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo” (Rm 12,5).
I giorni del Triduo pasquale devono spronarci a vivere questo momento di difficoltà nel silenzio interiore per “rientrare in noi stessi” e riappropriarci dell’essenziale della nostra vita sacerdotale, a prescindere dalle circostanze e dagli eventi. Questo deve essere il tempo di una “rinnovata speranza”. Solo la Speranza che nasce dalla Risurrezione può dare – sempre e a tutti – il coraggio di operare e di proseguire nel nostro impegno di edificare la Chiesa. Si tratta di una “speranza certa” – come dice san Francesco – quella di cui parliamo, perché Gesù Risorto ha distrutto la morte e ha vinto il male: Egli, morto in croce per amore e risorto per la nostra santificazione, è l’unica speranza del mondo: ieri oggi e sempre. Sia questa la ragione ultima di ogni sforzo e impegno spirituale e pastorale; sia anche questa la motivazione profonda per il tempo della ripresa, che ci auguriamo possa iniziare quanto prima.
Ho apprezzato molto che, nei giorni di “clausura forzata” impostici dall’emergenza sanitaria, ognuno di voi, nelle forme e nelle modalità che ha ritenuto più opportune, si sia sforzato di essere accanto alla propria comunità. Consentitemi un ricordo particolare ai più anziani tra noi: si sentano pensati e voluti bene. Non scoraggiamoci! Non lasciamoci rubare la speranza. Prepariamoci a ripartire con entusiasmo e ad aiutare la gente a ripartire bene. Teniamo monitorato il tessuto sociale e relazionale delle nostre comunità: le eventuali tensioni, le possibili situazioni di disagio e le emergenti difficoltà economiche. Ripartire significherà sicuramente riprendere programmazioni e quant’altro, ma ripartire deve significare soprattutto puntare sulla carità sia nel senso di solidarietà e sia nel senso di ascolto, vicinanza, pazienza e comprensione.
Concludo, con un augurio cordiale e un grazie sincero, a tutti e a ciascuno perché ci siete e perché mediante le vostre persone, le vostre fatiche e le vostre sofferenze, il Signore continua a prendersi cura del suo popolo, che ha redento a prezzo del suo Sangue prezioso.
Il Signore ci benedica e ci faccia gustare in Lui, oggi e sempre, la gioia del Sacerdozio.