Carissimi, è non senza rammarico che mi trovo costretto a rinunciare al nostro abituale appuntamento e a tradurre in questa modalità “a distanza” i miei personali auguri pasquali a tutti voi, alle vostre famiglie e alle vostre comunità.
So di cogliere ciascuno di voi in un momento di intenso lavoro, stress e tensione. La dura prova alla quale l’emergenza sanitaria ci sta sottoponendo tutti, ciascuno secondo le proprie responsabilità e i propri ruoli, non ha precedenti in quanto a diffusione e pervasività. Il compito di gestire e coordinare le attività essenziali della vita civile – non solo le prestazioni sanitarie, ma l’assistenza ai più fragili, il sostegno a privati cittadini e imprese, i servizi di pubblica sicurezza, l’erogazione dei sussidi statali, una comunicazione efficace ma rassicurante verso tutti i cittadini – è gravoso. Mentre sperimentiamo tra noi inedite forme di solidarietà ed empatia – poiché ci riscopriamo “tutti sulla stessa barca”, come ha suggerito il Papa con parole potenti qualche giorno fa – sentiamo anche sulla nostra pelle, tra le ansie e le angosce per il pericolo a cui siamo sottoposti, la stanchezza di questi giorni.
È pensando innanzitutto a questa stanchezza che sento il bisogno di dirvi un sincero e profondo grazie per tutto l’impegno che state profondendo nella gestione di questa crisi senza precedenti. Lungi da ogni esibizione di eroismo, con il vostro servizio quotidiano state rappresentando in maniera irreprensibile la dignità della nostra bellissima terra e della sua gente.
Non tutte le stanchezze sono uguali, come ha scritto in questi giorni il filosofo sloveno Slavoj Žižek: c’è una stanchezza postmoderna, egoistica, alimentata dalla sete di realizzazione personale e da un vuoto senso di sfida verso se stessi; e poi c’è la stanchezza di chi, come voi, in questi giorni è in prima linea nel fronteggiare l’emergenza, una stanchezza maturata nel servizio gratuito per gli altri, nell’abnegazione verso la comunità. È la stanchezza di chi, semplicemente, sceglie di fare il proprio dovere, sceglie di fare la cosa giusta, di non sottrarsi al proprio debito verso la realtà e verso gli altri. La vostra è la stanchezza dell’“Eccomi”, di chi avverte la responsabilità della propria vocazione umana e civile – ed è per questo, mi permetto di dire, una stanchezza benedetta. Di questa stanchezza – intelligente, capace, generosa – voglio sinceramente ringraziarvi.
Come dicevo, questo strano tempo di “sospensione della presenza”, nel quale siamo obbligati a rendere solo virtuale la maggior parte dei nostri incontri, ci sta abituando ad esercitare la distanza, a maturare una sorta di “virtù della distanza”. Perché anche la distanza può trasformarsi in una occasione virtuosa: allenta il calore del contatto fisico, è vero – e quanto ce ne stiamo accorgendo in questi giorni – ma ci dà anche l’opportunità di riflettere sul valore e sulla responsabilità della nostra presenza. In una parola, pensando anche alla situazione che tutti noi stiamo vivendo in questo tempo, direi che l’esercizio della distanza comporta anche un’ascetica dell’autorità.
«Autorità», come sapete, viene da «auctor», autore: è la posizione di chi “mette la firma” per determinati atti o decisioni. L’autorità comporta un’assunzione di responsabilità, la necessità di riconoscere come mie e soltanto mie certe parole, certe azioni. In questo senso, potremmo dire che l’esercizio della distanza rimette l’esperienza dell’autorità alla propria essenza specifica.
Potreste rimproverarmi che quella che io chiamo un’ascetica dell’autorità si rivela spesso, particolarmente in questi giorni, un’esperienza di grande solitudine: la solitudine del leader, del decisore in ultima istanza, di chi ha responsabilità dirigenziali nei vari ambiti della vita civile. È la solitudine di chi è consapevole che dalle proprie decisioni e dai propri eventuali errori dipende il benessere e la salute dei cittadini. Vivere questo periodo come un’ascetica dell’autorità significa non lasciare che l’esperienza della solitudine divenga un alibi per l’inazione. La figura di Pilato, che proprio nella memoria della Passione di Cristo in questi giorni incontreremo, ce lo ricorda: anche scegliere di non scegliere è una forma di potere, e anzi l’omissione di responsabilità è la più esiziale forma di responsabilità per un uomo: “«Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!»” (Mt 27, 24).
Pilato è l’icona della solitudine del potere in ragione della sua irresponsabilità, non della sua autorità. L’epigrafe della sua solitudine sono quelle tre parole che l’evangelista Giovanni scolpisce, acuminate quanto aride, come risposta del governatore alla presentazione di Gesù: «Che cos’è la verità?» (Gv 19, 38). Quid est veritas: sta tutta in quel quid l’irresponsabilità di Pilato. La ragione dell’anomia tragica in cui egli perde se stesso non sta nel fatto che si interroghi sulla verità, ma nel fatto che si interroghi sulla verità come una cosa, un quid. Nel momento della scelta, che come scriveva Kierkegaard è il «gesto etico per eccellenza», Pilato rivela non solo di non aver trovato, ma di non aver mai saputo cercare quel fondamento di senso che, solo, avrebbe potuto indirizzare il suo agire. Invano cerca la verità come se fosse un quid, una cosa, un concetto, una astrazione; e non si accorge invece che la verità è un quis, un chi, una persona, un incontro. Ecco perché Pilato è solo. Egli vive la solitudine del potere autoreferenziale, inconsapevole che il risvolto dell’autorità è sempre la responsabilità per un volto, un po’ come accade al Grande Inquisitore che Dostoevskij mette in scena ne I fratelli Karamàzov, basito e fatalmente sconfitto di fronte ad un Cristo che al suo delirio di arroganza risponde con un bacio senza parole.
Ed ecco perché, invece, a voi che in queste ore portate il fardello gravoso delle decisioni da prendere, è dato di non lasciare che l’autorità si traduca in solitudine. Perché l’esperienza della distanza che siamo costretti a vivere, mentre ci isola fisicamente, tuttavia ci rende ben manifesti i volti, le angosce, le tribolazioni e le speranze delle persone sulle quali le nostre azioni e decisioni avranno conseguenze. L’emergenza sanitaria sta rendendo evidente che c’è un quis – non un quid – alla base della nostra vita pubblica. È un appello personale insopprimibile, un chi inoccultabile, quello che ci sta dinanzi in queste ore. Il chi della nostra responsabilità è il volto degli ammalati nei letti delle terapie intensive; è l’espressione esausta degli operatori sanitari costretti a turni interminabili in corsia; sono gli occhi bassi dei poveri, degli ultimi tra gli ultimi, in queste ore ancor più costretti a vincere il pudore di dover chiedere aiuto; sono le mani tremule degli anziani che, barricati in casa, sgranano un rosario e cercano al telefono il calore di una voce familiare; è lo sguardo smarrito dei bambini e degli adolescenti, che dall’altra parte di uno schermo chiedono ai propri insegnanti quando finirà tutto questo; è la figura fragile eppure imponente di Papa Francesco in una Piazza San Pietro deserta; sono i visi di tanti, troppi, che non conosceremo più, che abbiamo visto soltanto sfilare su camion militari con la maschera di una bara.
Questa è la ragione per la quale non vi è concesso di vivere l’autorità come una solitudine: perché la distanza è per noi anche uno spazio di grazia, una radura di luce in cui appare chi interpella la nostra responsabilità, a chi sono rivolti i nostri sforzi. Siate dunque autori delle vostre responsabilità, sapendo però che non siete soli.
Oltre al senso di solitudine, c’è forse anche un’altra preoccupazione fondamentale a inquietarvi in questi giorni: la sensazione di inadeguatezza, di precarietà di fronte ad una minaccia che è piombata sulle nostre vite come un inatteso, e il cui sviluppo si prospetta ancora per molti versi imprevedibile e incerto. Siamo abituati a pianificare tutto, a studiare nel dettaglio strategie di intervento sulla base di analisi costi-benefici che mettano in conto ogni rischio residuale; ma quando una emergenza del genere arriva così, quasi all’improvviso, sconvolgendo radicalmente il nostro modo di vivere, ogni piano salta. Come si può, allora, amministrare l’emergenza? L’arte di amministrare si basa per definizione sui tempi lunghi del progetto, su un’economia dell’aspettativa, della programmazione, persino della promessa: come può resistere ad un imprevisto così radicalmente contingente?
Così la pandemia sembra mettere a dura prova la nostra convinzione che le politiche pubbliche e l’amministrazione della casa comune debbano esprimersi in un tempo di normalità, cioè – letteralmente – attraverso le norme, per via di processi e comportamenti regolari. Lo stato di eccezione e la sua stessa mancanza di definizione temporale ci spaventano.
David Runciman, un docente di teoria politica all’Università di Cambridge, qualche giorno fa ha pubblicato sul quotidiano inglese «The Guardian» una riflessione in tal senso. Criticando l’utilizzo della metafora bellica per descrivere la situazione nella quale ci troviamo in questi giorni, egli sostiene che non dovremmo pensare all’eccezionalità del momento che stiamo vivendo come a una «sospensione della politica», bensì come alla «rivelazione della essenza cruda della politica, al di sotto dello strato superficiale che conosciamo abitualmente». Questa essenza sarebbe, com’egli dice citando il filosofo del XVII secolo Thomas Hobbes, che la politica è fondamentalmente esercizio del potere, un processo nel quale qualcuno dice a qualcun altro quello che deve fare.
Si può forse non concordare in pieno con il tono delle riflessioni di Runciman, ma è abbastanza condivisibile, mi sembra, l’idea che lo stato di eccezione ci mostri la responsabilità del governo per quello che essa è, senza veli. Governare significa assumere delle decisioni, imboccare delle strade e scartarne delle altre: tenere a mente l’enorme portata di questo potere ci permette di ponderarne anche in ogni momento la delicatezza, di sentirne tutta la responsabilità, in modo da evitare la tentazione sempre presente di abusarne. Perché, se è vero che lo stato di eccezione è in un certo senso la “cartina al tornasole” del potere, il “caso serio” nel quale si misura autenticamente la capacità di governare la vita pubblica, è altrettanto vero che tale stato di eccezione non può divenire la norma, affinché la necessaria attività dei decisori non oscuri la primaria partecipazione democratica di tutte le componenti sociali alla cura del bene comune.
Ancor più in questo caso, il compito di esercitarsi in una ascetica dell’autorità mi pare ineludibile per tenersi al riparo dai rischi che la tentazione di estendere discrezionalmente lo stato di eccezione comporterebbe. Sentir gravare il peso della responsabilità per l’autorità di cui si è investiti, come voi state dimostrando in maniera straordinaria, implica anche un’eccezionale capacità di autocontrollo, una coltivazione speciale della sobrietà nelle parole, nei gesti e negli atteggiamenti.
Ciò è tanto più vero quando l’oggetto dei compiti di governo – come accade, talvolta drammaticamente, in occasione di questa emergenza – è la vita stessa. Molti pensatori contemporanei, a partire da Michel Foucault, ci avvisano da decenni: l’età postmoderna sarà l’età della biopolitica, cioè della politica esercitata direttamente sulla vita delle persone. Lo leggiamo da decenni, ma mai lo avevamo compreso in maniera così nitida come sta avvenendo in queste settimane. Quando ad essere governati non sono più soltanto gli scambi delle merci, le aliquote fiscali o le tipizzazioni di un piano regolatore, ma sono direttamente le vite degli uomini, allora, comprendete bene che il ruolo di chi ha responsabilità pubbliche trascende quello di un semplice “amministratore”. Quando è in gioco la vita stessa dell’uomo, la responsabilità di cui siete resi depositari riguarda una cura dell’umano che appartiene alla vostra vocazione “sacerdotale”, poiché sacra è la vita. Ed è qui che, nel senso più profondo, la politica si fa quella “mistica arte” sulla quale pagine straordinarie ha scritto don Tonino Bello.
Non esito a pensare che il Mistero Pasquale, che è mistero di un sepolcro vuoto, mistero della vita che trionfa sulla morte nel segno di un amore per l’uomo troppo forte per sottomettersi al ricatto del potere, possa guidarvi e infondervi fiducia e speranza in questi giorni così faticosi. Confido che l’immagine del Risorto possa essere per voi l’emblema della bellezza della vita per la quale occorre profondere tutto il nostro impegno, oggi più che mai. Ed è nel nome di Cristo Risorto che invio a voi tutti, ai vostri cari, ai vostri collaboratori, la mia benedizione fraterna, con l’augurio di una Pasqua di vera comunione, nella quale, seppur distanti, sapremo assaporare la gioia autentica della vita che mai si arrende.