La ripresa dopo la lunga quarantena è arrivata anche per la Chiesa, ma un po’ al rallentatore. Non si sono viste folle accalcarsi per accaparrarsi i pochi posti disponibili nelle chiese e anche le attività estive per i più giovani – ce lo si ripete in tutte le salse quasi per rassicurarsi – si faranno, anche se con fatica. Certo, in qualche modo le si farà: ma non per tutti, solo in alcune ore, sottostando a tutte le attenzioni e precauzioni del caso. Non sarà più la stessa cosa. Il dubbio, che quasi si fa fatica ad esplicitare, potrebbe essere formulato con questa espressione: «ma allora, la Chiesa a cosa serve?». All’umanità, piagata dalla pandemia e dalla crisi economica, a cosa serve la Chiesa?
Più di mille convention teologico-pastorali e di relativi documenti e linee-guida, le difficoltà di questo periodo stanno mettendo al muro molti cristiani, invitandoli a passare dalla oziosa e pericolosa domanda: «a cosa serviamo?», a quella fondamentale e liberante: «chi serviamo?». Quando un servo ha il tempo di fermarsi e chiedersi: «a che cosa servo?», è perché sta vivendo un certo smarrimento, una crisi di identità. Il Salmo ci ricorda che, invece, «come gli occhi dei servi/ alla mano dei loro padroni […]/ così i nostri occhi al Signore nostro Dio» (Sal 123[122],2). Il vero servo non ha il tempo di porsi la domanda «a che cosa servo?», perché è sempre pronto a rispondere all’altra questione, più fondamentale: «a chi servo?».
Spendere la propria vita a inseguire l’utilità della Chiesa e misurare in base a questa il successo del proprio servizio è una strada scivolosa che può condurre a rendersi schiavi dell’utilità e, soprattutto, a dimenticare Chi si è chiamati a servire. Scrive sant’Agostino nel de doctrina christiana: «è schiavitù carnale assumere il segno, che pure è stato utilmente istituito, per se stesso e non per Colui per indicare il quale è stato istituito. […]. È assoggettato al segno chi compie qualche atto o venera qualche cosa che hanno valore di segni, senza sapere che cosa significhino». Le folle alle messe domenicali e i centri estivi gremiti di bambini sudati, a cui gli uomini di chiesa hanno dedicato la maggior parte delle loro energie, di cosa, di Chi erano segno? Occorre chiederselo, perché non accada – come continua Agostino – che venerando ciò che appare e passa (come adesso sta passando), non si perda la libertà, quella libertà che è propria dei servi cristiani.
È la libertà dei «servi inutili» (Lc 17,7), di coloro che non hanno la pretesa di credersi utili al mondo e al suo bene spirituale, ma sanno bene di poter aspettare la propria ricompensa solo dal loro Signore, davanti al quale gridano giorno e notte (cfr. Sal 87,2). Il servo inutile sa chi serve e a chi serve, è libero dall’utilità del suo servizio, come scrive sant’Ambrogio in un passo del suo Commento al Vangelo di Luca: «Riconosci dunque di essere un servitore […] e non ti vantare di aver ben servito. […]. Non esigiamo di essere lodati per noi stessi; non preveniamo il giudizio di Dio, non diamo per scontata la sentenza del giudice, ma lasciamola al suo tempo e al suo giudizio».
Forse è proprio questo tempo di fatica l’occasione in cui cogliere il punto di svolta della tanto auspicata riforma del clero e della Chiesa: dal servizio dell’utilità al servizio inutile del Signore. Anche le sorelle e i fratelli più lontani dal cristianesimo forse hanno bisogno di ritrovare questa scandalosa e ironica libertà. In un mondo che pullula non solo di servizi e offerte, ma anche di prezzi e giudizi, cosa c’è di più affascinante e liberante di trovare donne e uomini non preoccupati del rating e dell’efficacia, quasi contenti della loro inutilità, perché certi di chi sia il loro Signore. Uomini e donne liberi, perché innamorati dell’unico che può liberare.
Le forme che opprimono passano. Magari le Chiese non torneranno ad essere più piene e i centri estivi non saranno più quelli di una volta. I servi dell’utilità cercheranno di correre ai ripari e impauriti troveranno accorgimenti per mettere al sicuro quel poco che rimane, come l’uomo che aveva ricevuto solo un talento e lo mette sotto terra (Mt. 25,25). Sotto terra, come si fa con i morti. I servi inutili, invece, non avranno paura di perdere alcunché, per la fede nel loro Signore non avranno timore di rischiare tutto ciò che hanno. In questo periodo, ne sono certo, vedremo sorgere alcuni uomini che rischieranno tutti i loro talenti in forme nuove e mai sperimentate. Sarà facile riconoscerli, perché non saranno guidati dall’ansia del successo pastorale, ma dall’unico amore che libera.
In fondo l’altro nome dell’inutilità è la gratuità, come il vero nome del servo inutile è quello del Figlio. Questa credo che sia l’occasione di questo tempo: passare dalla schiavitù del fare alla riscoperta della libertà dei figli che amano gratuitamente.
don Pierluigi Banna, docente di patrologia al Seminario di Venegono