Venerdì Santo. Mons. Semeraro: la sua deformità, la nostra bellezza

Venerdì Santo. Mons. Semeraro: la sua deformità, la nostra bellezza

«Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi… come uno davanti al quale ci si copre la faccia»: sono le parole del profeta che abbiamo ascoltato questa sera. I più antichi rabbini d’Israele ritenevano che fosse la descrizione del Messia, il quale sarebbe stato riconoscibile dalle forme di un lebbroso seduto alle porte di Roma (cf. Talmud Babilonese, Sanhedrin 98a). Per noi cristiani si tratta di Gesù.
Fra poco ascolteremo un annuncio: Ecco il legno della Croce, al quale fu appeso il Salvatore del mondo! Ci volgeremo, allora, alla Croce di Cristo, perché anche di noi è scritto: volgeranno lo sguardo a colui che è stato trafitto (cf. Gv 19,37). Nell’antica liturgia della Settimana Santa c’è un responsorio che dice così: «Ecco, l’abbiamo veduto: non ha né forma né avvenenza: non c’è bellezza in lui. Questi è colui che ha portato i nostri peccati e soffre per esserci d’aiuto. Egli è stato schiacciato per le nostre iniquità, per le sue piaghe noi siamo stati guariti». Quello, dunque, che oggi dobbiamo fare è soprattutto guardare. L’immagine del Crocifisso quest’anno non possiamo baciarla, ma possiamo guardarla! Ecco, l’abbiamo veduto! La vista è il senso dell’amore. Ubi oculus ibi amor, dicevano i medievali e Riccardo di san Vittore spiegava: «Dove c’è l’amore lì c’è lo sguardo; guardiamo, infatti, con piacere quello che molto amiamo» (Benjamin minor, 13: PL 196, 10).

Guardare vuol dire anche desiderare ed è per questo che usiamo dire: mangiare con gli occhi. Ecco: oggi dobbiamo guardare il Crocifisso proprio così. Dobbiamo farlo non con uno sguardo estetico («non ha bellezza»), ma con l’occhio della fede. E mi torna alla memoria ciò che un altro medievale scriveva in un’opera talmente bella da essere chiamata Lettera d’oro.
Ascoltiamo: «Ogni volta che, in memoria di colui che ha sofferto per te, ti lasci pervadere l’animo da questo evento con tutta la tua pietà e la tua fede, tu mangi il suo corpo e bevi il suo sangue; e per tutto il tempo che, per amore, rimani in lui ed egli, per opera della sua santità e della sua giustizia, rimane in te, sei annoverato come parte del suo corpo e come uno delle
sue membra» (Guglielmo di Saint-Thierry, Lettera d’Oro, n. 119: PL 184, 327). Considerando, allora, il Crocifisso (e chi di voi non ne ha in casa un’immagine?) rivolgiamogli la preghiera, che ora dico per me ed a nome vostro: sarà la nostra comunione
spirituale in questa azione liturgica del Venerdì Santo 2020. Mangiamo con gli occhi Gesù Crocifisso e diciamogli: «Ti vediamo appeso ad una croce, livido per le piaghe e pallido nella morte. Eri il più bello tra i figli dell’uomo ed ora i nostri peccati ti hanno deturpato. Oh Padre del cielo, guarda questo tuo Figlio che per amore si è fatto fratello nostro; guarda le sue mani innocenti e perdona i peccati che con le nostre mani abbiamo commesso; guarda i suoi piedi trafitti dai chiodi e tieni saldi i nostri piedi sulle tue vie (cf. Sl 17,5); guarda la sua sofferenza e sollevaci dalla nostra miseria; guarda il suo costato aperto dalla lancia e lavaci con l’onda pura, che scaturisce da quella fonte di salvezza» (cf. Lamentatio in Passionem Christi, 1-2: PL 184, 1-2).

Ed ora che nella preghiera abbiamo fatto pure il ricordo del nostro Battesimo, continuiamo a guardare le ferite aperte sul corpo di Cristo Crocifisso: sono gli spazi da cui zampilla lo Spirito. Gesù lo aveva annunciato: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: “Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”. Questo egli disse
dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui» (Gv 7,37-38). È la ragione per cui san Giovanni descrive morte di Gesù come sorgente dello Spirito: «chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). Se nessuno avesse aperto quelle ferite, non sarebbe mai nata la Chiesa. Felice colpa, canta la Chiesa nella Veglia Pasquale. Aveva davvero ragione Ch. Peguy nel dire che il peccato è essenzialmente un’apertura alla grazia (cf. «Nota su Bergson e sulla filosofia bergsoniana», in Cartesio e Bergson a c. di A. Prontera e M. Petrone, Milella, Lecce 1977, 87). Scrive san Paolo: «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20).
Siamo nati dal costato trafitto di Gesù. Tutti noi, carissimi, abbiamo un’impronta che ci ricorda questa nascita ed è il segno della Croce. Sant’Agostino predicava che noi portiamo nella nostra fronte il segno della deformità di Cristo ed è appunto la croce con cui siamo stati segnati nel rito del nostro Battesimo. Ricordiamone le parole: «con grande gioia la nostra comunità cristiana vi accoglie. In suo nome io vi segno con il segno della croce». Ogni volta, dunque, che facciamo il segno della Croce ricordiamoci anche delle parole di sant’Agostino: Gesù era deforme quando pendeva dalla croce, ma la sua deformità ha costituito la tua bellezza (cf. Serm. XXVII, 6: PL 38, 181). Per le sue piaghe siamo stati guariti!