Il tempo muta verso una coraggiosa primavera. Una primavera che per noi quest’anno coinciderà climaticamente quasi con l’estate, visto che finora eravamo rimasti al chiuso e che solo da qualche giorno possiamo celebrare comunitariamente la nostra fede e la tutta la gioia della Pasqua. Questa volta la nostra Pasqua coinciderà comunitariamente con l’Ascensione, ascensione che del resto, secondo la più accreditata teologia, non è che un aspetto, anzi una espressione della Pasqua. Gesù scompare fisicamente, mentre noi ci accostiamo al suo Corpo realmente attraverso l’eucaristia, dopo una quaresima durata il doppio delle altre volte. Intanto però cantiamo nella gioia della primavera la Risurrezione del Signore. Sento misticamente, misteriosamente eppure realmente, come rivolte da Gesù a tutta la Chiesa quanto lo sposo del Cantico dei cantici non smette mai di dire alla sua sposa: «Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! / Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; / i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. / Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! » (Cc 2,10-12). Questa volta è Gesù a chiamarci, quasi prevenendo la nostra abituale chiamata a lui durante l’eucaristia, quando gli domandiamo espressamente: «Concedi anche a noi di ritrovarci insieme a godere per sempre della tua gloria», nella scia quella formula tanto incisiva da mettere i brividi, tramandataci sulle prime celebrazione dall’antichissimo testo della Didachè : «Venga la tua grazia e passi questo mondo!».
In realtà noi chiediamo e vogliamo che passi non il mondo degli esseri umani per il quale Gesù ha offerto la sua vita e che volgerà definitivamente al meglio quando piacerà al Padre (Mc 13.32), ma il mondo della pandemia, dell’egoismo di uomini che non hanno cura della vita del fratello, il mondo del guadagno sempre e ad ogni costo: bombe, armi batteriologiche, sperimentazioni rischiose per la sopravvivenza dell’umanità; menzogne e omertà di singoli e persino di rappresentanti di governi. Passi questo mondo e venga la nuova primavera! La brulicante primavera si avverte con tutta la sua prepotenza, nel caldo quasi già afoso, nei ritornelli delle rondini, nell’immutata bellezza che sembra incurante della ferita aperta, che piega il mondo e che vede le stagioni susseguirsi, come se nulla fosse realmente accaduto. Respirano gli alberi, respirano i fiori, anche l’anima sembra iniziare a respirare, ha fame d’aria, come a voler recuperare tutta la deficienza d’ossigeno di questi mesi spenti a causa del coronavirus. Se si potesse pensare ad un interruttore della vita, un ON-OFF che del tempo congeli alcuni giorni, direi che, adesso, è di nuovo il momento di accendere la luce, di ricominciare a passetti, piccoli sorsi di quella normalità che abbiamo desiderato per mesi, da cui ci siamo sentiti traditi, perché qualcosa che sconvolge, è sempre qualcosa che ci costringe al cambiamento e, purtroppo, che spesso fa paura. E tuttavia la gioia pasquale ci incalza, ancor più di ogni paura e sembra parlarci con il profeta della speranza, Isaia: «Ecco, faccio una cosa nuova: /proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? / Aprirò anche nel deserto una strada, /immetterò fiumi nella steppa» (Is 43:19). La Parola di Dio ci invita a ricostruire il mosaico della speranza, affidandoci a Dio ed investendo nelle nostre stesse capacità, quelle che non ci hanno limitato nella pandemia, quelle che ci hanno reso vicini dei nostri vicini, azionando una meravigliosa macchina della solidarietà, che dovrà sopravvivere e al virus e alla stessa normalità. Dobbiamo ridisegnare la bellezza, o meglio ricomprenderla, questo termine a cui abbiamo spesso conferito un’accezione ferma sull’estetica del sensibile e che, invece, ha interessato tutta la storia del mondo, da Oriente ad Occidente, diventando fedele compagna del pensiero pulito di filosofi e teologi. Oggi, la bellezza, non si può spiegare. La bellezza, mi verrebbe da dire, è come la fede: scava l’intimità come un tarlo e si appoggia sul triangolo di scarico dell’anima.
Non è un caso che i più grandi maestri di civiltà, i Greci, con il termine kalós, indicassero contemporaneamente il “bello” ed il “buono”, un fil rouge che salda etica ed estetica, perché fare il bene è bello, per tutte le meraviglie umane e sociali che ne conseguono. Da questo cosmo fecondo, da questa primavera verace, dobbiamo ripartire per fare esperienza dello stupore, della meraviglia, di quei riflessi del creato che sono i riflessi di Dio e che non ci hanno mai abbandonato, neanche nelle ore in cui le nostre preghiere sembravano solo l’eco indistinta di una stanza vuota. «Le molte contraddizioni devono essere accettate, tu vorresti amalgamare tutto insieme in unità e in un modo o nell’altro vorresti semplificarle in te, così la vita diventerebbe più semplice per te, ma insomma la vita è fatta di contraddizioni, e tutte devono essere accettate come appartenenti alla vita, e non si deve mettere l’accento su qualcosa a spese di qualcos’altro. Lascia che l’intera faccenda segua il proprio corso, e potrà accadere che ancora una volta diventi una sola totalità». Così scriveva, sul quaderno della sua prigionia, una grande mistica olandese, Etty Hillesum, una giovanissima donna che ha fatto i conti con il vero contrario della bellezza, con la fragilità della violenza, con l’incertezza dell’umano e con la volgarità storica del nazismo.
Insieme con lei possiamo chiederci: come si fa a non perdere speranza e fiducia nella bellezza, quando si vive in un recinto di filo spinato? Quando la trincea della vita è vera come il dolore, come l’abbandono, come la perdita della dignità? Pensiamo a questi mesi passati, al dolore e allo struggimento del cuore di tanti nostri fratelli colpiti in prima persona dalla ferocia di questa pandemia. Come si fa a non rinnegare la presenza ostinata della bellezza? Forse solo diventando, come ha ben detto Papa Francesco, “custodi dei doni di Dio” perché tale custodia «(…) è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, un aspetto non secondario dell’esperienza cristiana». Nella vocazione originaria alla bellezza nell’umano e nel naturale, si può scorgere e riconoscere la stessa bellezza di Dio. Che è soprattutto armonia. David Hume, un fine filosofo scozzese, scriveva: «La bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla ed ogni mente percepisce una diversa bellezza». L’armonia della diversità ci dice, dunque, il cammino che dobbiamo percorrere, per ritrovare noi stessi e il senso di stare dentro questo mondo che non è né statico né perennemente identico a se stesso.
In ogni epoca, allora, la bellezza va ricercata, compresa, riconcorsa, come dice Papa Francesco, custodita. Il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori, per parafrasare i versi di una grande poetessa italiana, Alda Merini. E allora, se mi chiedeste cos’è la bellezza, vi direi che è semplicemente un dono. Il dono che rappresenta la coesione tra individui, il punto mediano tra un legame comunitario ed un legame trascendentale; esso ha una funzione sociale con tre caratteristiche fondamentali “dare, ricevere, ricambiare”. La bellezza si dona gratuitamente, si accetta e si ricambia, restituendo ciò che si è ricevuto ed accrescendo l’altro e se stessi. È “la roccia della morale eterna” che non si piega alle logiche dell’accumulo, né all’avarizia dell’incedibile e forse, e non poi così in coda, è avere qualcuno da amare e che ci ami. «Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene ed i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi» (S. Agostino). Sono, in effetti, i nuovi tempi della Grazia, che si rinnova e ci rende nuovi. È l’invito di Paolo, la cui gioia attinta alla visione del Risorto, gli faceva concludere e ci fa concludere: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17).