Mons. Angiuli: il Getsemani di Cristo e il Getsemani dell’umanità

Mons. Angiuli: il Getsemani di Cristo e il Getsemani dell’umanità

Il virus che sta portando sofferenza e morte nel mondo non vi ha consentito di partecipare al rito della benedizione delle palme che si è svolto solo in Cattedrale, senza concorso di popolo. Al centro di questa liturgia, c’è il racconto della passione di Gesù. Quest’anno ci è stata proposta secondo la narrazione del Vangelo di Matteo.
Vi invito a fissare la vostra attenzione sul fatto che la passione di Cristo è la passione del Figlio di Dio. L’avvenimento storico ha una dimensione teologica: il Verbo incarnato assume su di sé la sofferenza, l’angoscia e il tormento della vita e della storia. In Cristo, Dio patisce, soffre, si immola e, infine, muore nella sua umanità.
In secondo luogo, la passione di Gesù raccoglie in sé quella di tutti gli uomini, di tutti i tempi. Per questo – scrive san Leone Magno – «chi vuole onorare veramente la passione del Signore deve guardare con gli occhi del cuore Gesù crocifisso e, in modo da riconoscere nella sua carne la propria carne».
Vi è un inscindibile intreccio tra la passione di Cristo e la passione dell’umanità. Dobbiamo considerare la dimensione divina della passione, senza trascurare la sua dimensione umana. E viceversa. Quando ci rattristiamo per la sofferenza degli uomini, non dobbiamo dimenticare quella del Verbo incarnato. Il dramma di Dio è il dramma dell’uomo, un
solo dolore. Dio e uomo sono uniti insieme, in modo inseparabile, anche nel dolore.
Viviamo, dunque la difficile situazione di questi giorni alla luce della passione di Cristo, ossia nella prospettiva della Pasqua. Il Vangelo della passione si conclude con la sepoltura di Gesù e il sigillo posto alla tomba da parte dei soldati (cfr. Mt 27,66). Sembra tutto finito, ma in lontananza si vedono già le luci della Pasqua. Dobbiamo meditare, in modo dialettico, i due aspetti
di questo mistero: l’asprezza del dramma e la sua fruttuosa soluzione, l’abisso quasi insolubile del dolore e l’insperata trasfigurazione nella gioia della Pasqua.
Lascio alla vostra meditazione la riflessione sull’intero racconto. Mi soffermo solo sulla scena del Getsemani (cfr. Mt 26,36-46) per la sua attinenza con quanto stiamo vivendo in questi giorni. Il Getsemani è il grande mistero del dolore fisico e spirituale e manifesta, in tutta evidenza, la dimensione tragica della vita umana, la sua fragilità, la sua debolezza, i suoi tormenti. Si mostrano tutte le ferite più profonde che un uomo deve sopportare: l’abbandono, il tradimento, l’ineluttabilità della morte. D’altra parte, proprio all’interno di questa esperienza limite, Gesù manifesta la sua totale fiducia e la sua confidenza filiale in Dio Padre. Nell’orto degli ulivi, quando giunge la sua Ora, Cristo vive e nobilita tre sentimenti e atteggiamenti: l’isolamento, la tristezza e la preghiera.
Nel Getsemani, l’abbandono da parte degli uomini è totale. Sotto la croce, sostano Maria, la madre dolcissima, e Giovanni, il discepolo amato. Nel Getsemani nessuno. Gesù rimane solo quando prega e quando viene arrestato. Mentre prega, i discepoli dormono (cfr. Mt 26, 40 43. 45), durante l’arresto, lo abbandonano e fuggono (cfr. Mt 26, 56). Come non pensare ai tanti contagiati dal coronavirus che muoiono da soli negli ospedali senza la vicinanza e l’affetto dei propri familiari
e senza il conforto dei sacramenti e dell’Eucaristia? Muoiono soli, come Gesù. Ma Gesù non li lascia soli. Nella sua solitudine, ha vissuto in anticipo anche la loro. Ed ora, li consola con la sua presenza.

Nel Getsemani, l’afflizione per la solitudine si trasforma nella tristezza dell’anima. «La mia anima è triste fino alla morte» (Mt 26,38). Con queste parole, Gesù mette a nudo il suo cuore e ci fa intravedere l’abisso del suo dolore. La tristezza dell’anima si sperimenta a due livelli: psicologico e spirituale. La tristezza psicologica si manifesta in previsione del calice amaro, difficile da accettare e da bere. Questo sentimento di Cristo evidenzia la sua piena umanità. La specie umana,
secondo il poeta Virgilio, «ha paura, desidera, gioisce e soffre». Come nostro vero fratello, Gesù sperimenta il peso e il limite profondo e radicale della sofferenza.
Nella famosa canzone “Emozioni”, Lucio Battisti canta queste bellissime parole:
«Domandarsi perché quando cade la tristezza / In fondo al cuore /Come la neve non fa rumore».
A volte, il dolore dell’anima si presenta come in questi versi, insinuandosi silenziosamente nell’anima. Un cupo sentimento, pian piano, in modo inavvertito e apparentemente senza una precisa ragione, si fa strada nell’anima. Altre volte, la tristezza ci assale quando sappiamo di avere contratto una malattia seria che può condurci anche alla morte. Esattamente quello che provano coloro che sono affetti dal coronavirus in modo grave. Si può dire che è il vero filo costante della cultura, della società, dell’umanità è la domanda sul senso del dolore. Questa domanda assomiglia a quella di Giobbe. Colpito profondamente dalla sventura fisica e spirituale, grida a Dio di tutto il suo dolore: «Mi trafigge i fianchi senza pietà, versa a terra il mio fiele, mi apre ferita su ferita, mi si avventa contro come un guerriero (Gb 16,13-14).
La tristezza psicologia diventa tristezza spirituale. Essa assume una duplice forma: la tristezza che, pur nell’amarezza, intravede la possibilità del ravvedimento e del pentimento e quella che, consapevole ormai proprio fallimento a causa del peccato, finisce nella disperazione. A tal proposito, san Paolo scrive: «La tristezza secondo Dio genera una conversione che porta alla salvezza, di cui non ci si pente, mentre la tristezza del mondo produce la morte» (2Cor 7,10). La prima forma di tristezza porta al riconoscimento del peccato, al ravvedimento e al pentimento. La seconda porta alla disperazione.
Esempi di questo duplice atteggiamento sono Pietro e Giuda. Entrambi rinnegano Cristo.
Probabilmente se avessimo potuto vedere il viso di Pietro, dopo il triplice rinnegamento del Signore, e quello di Giuda, dopo aver preso i trenta denari, avremmo visto espressioni simili sul loro volto: grande dolore e rabbia contro se stessi. All’apparenza, la tristezza dell’uno sembra simile a quella dell’altro. In realtà, ciò che cambia è il comportamento successivo. Pietro ama Gesù e, pur nella tristezza del peccato commesso, sa che il Signore è il Dio dell’amore e che, tornando a lui, avrebbe ricevuto il perdono nella vita presente e, in futuro, la vita eterna. Giuda, invece, pur essendo uno dei discepoli del Signore, quando capisce di aver sbagliato a tradire il Maestro, viene sopraffatto dal senso di colpa, si richiude in se stesso in una disperazione sorda e cieca che lo porta all’autodistruzione.
Gesù prova questi due sentimenti. La sua anima immacolata soffre al pensiero delle future sofferenze, ma più ancora per il peso dei peccati di tutti gli uomini: questo dolersi del peccato, il male più grande che ci sia, è frutto di una tristezza “buona”. Nell’orto degli ulivi, la tristezza diventa angoscia profonda. Fatto peccato (cfr. 2Cor 5,21), Gesù sperimenta l’abbandono e la
lontananza da Dio, lui che è sempre rivolto verso il Padre (cfr. Gv 1,1) rinnovandogli la sua filiale fiducie e il suo totale abbandono. Gesù, nello stesso tempo, beato e angosciato. San Giovanni Paolo II scrive: «Proprio per la conoscenza e l’esperienza che solo lui ha di Dio, anche in questo momento di oscurità egli vede limpidamente la gravità del peccato e soffre per esso. Solo lui, che vede il Padre e ne gioisce pienamente, misura fino in fondo che cosa significhi resistere col peccato al suo amore. Prima ancora, e ben più che nel corpo, la sua passione è sofferenza atroce dell’anima».
La verità di questa affermazione è corroborata anche dalla testimonianza dei santi. A riprova, lo stesso pontefice richiama l’esperienza di santa Caterina da Siena e di santa Teresa di Lisieux. «Nel Dialogo della Divina Provvidenza – egli scrive – Dio Padre mostra a Caterina da Siena come nelle anime sante possa essere presente la gioia insieme alla sofferenza: “E l’anima se
ne sta beata e dolente: dolente per i peccati del prossimo, beata per l’unione e per l’affetto della carità che ha ricevuto in se stessa. Costoro imitano l’immacolato Agnello, l’Unigenito Figlio mio, il quale stando sulla croce era beato e dolente”. Allo stesso modo Teresa di Lisieux vive la sua agonia in comunione con quella di Gesù, verificando in se stessa proprio il paradosso di Gesù beato e angosciato: “Nostro Signore nell’orto degli Ulivi godeva di tutte le gioie della Trinità, eppure la sua
agonia non era meno crudele. È un mistero, ma le assicuro che, da ciò che provo io stessa, ne capisco qualcosa”».

Anche noi, soprattutto in una situazione come quella che stiamo vivendo in questi giorni, potremmo incorrere nella tristezza dell’anima. Non lasciamoci vincere dal senso di colpa! E se anche questo si affacciasse, preghiamo. La tristezza potrà portarci in dono un nuovo modo di essere, più maturo e consapevole. Nel Getsemani, Gesù non spreca le parole: ripete continuamente la stessa, invocando la misericordia del Padre (cfr. Mt 26, 39. 42). Mentre si sta consumando il dramma della sua esistenza, Cristo invoca il Padre. Le tenebre del male si addensano su di lui con tutta la loro forza distruttiva. I discepoli dormono e si assopiscono, rimane solo il Padre, unica ancora di salvezza.
L’evangelista Matteo presenta sullo sfondo la figura di Abramo (cfr. Gn 18,16-33) e la preghiera del giusto (cfr. Sal 42,6.12 e 43,5). Gesù assume i tratti del credente (Abramo e il salmista) che passa attraverso la prova e la tribolazione rinnovando la fiducia in Dio. Soprattutto appare come il Figlio. Supera la tentazione proprio perché vive in modo intenso la propria
relazione con il Padre. In mezzo alla prova, continua a fidarsi e ad affidarsi al Padre. Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: «La preghiera di Gesù durante la sua agonia nell’Orto del Getsemani e le sue ultime parole sulla Croce rivelano la profondità della sua preghiera filiale: Gesù porta a compimento il disegno d’amore del Padre e prende su di sé tutte le angosce dell’umanità, tutte le domande e le intercessioni della storia della salvezza. Egli le presenta al Padre che le accoglie e le esaudisce, al di là di ogni speranza, risuscitandolo dai morti».
I discepoli, invece, nella prova vengono meno. La loro defezione matura a causa della loro mancanza di vigilanza e di preghiera. Mancando il rapporto col Padre, diventa impossibile la sequela del Figlio. E’ la preghiera al Padre che rende possibile la sequela. Il modo in cui Gesù esce dalla sua personale tentazione mostra con chiarezza la via che dobbiamo seguire. Lo Spirito Santo ci educhi in questi giorni a prendere esempio da Gesù, in modo da essere sempre più pronti a
seguire le orme che il Signore ci ha lasciato.