Mons. Savino: la generosità dell’essenziale nell’epoca della pandemia

Mons. Savino: la generosità dell’essenziale nell’epoca della pandemia

Mantenere. Che bel verbo! Racchiude la complicità di un patto, la sensibilità della cura, del tenere per e con la mano, del sostegno, di quella interdipendenza che, oggi, sembra tenerci legati ad un unico comune destino. Abbiamo, nel nostro vocabolario, la possibilità di metaforizzare questo verbo, non solo per ciò che maggiormente ci occupa e preoccupa: mantenere le distanze, ma per mantenere la calma, mantenere le promesse, mantenere un figlio, mantenere una relazione. Non ci hanno insegnato, forse nessun vocabolario ci è riuscito, a mantenere l’essenzialità. Oggi, al giro di boa di questa pandemia, siamo chiamati, tutti, indistintamente, ad appellarci all’essenziale. Indifesi, come all’improvviso ci siamo ritrovati tutti, contro una lotta al contagio, che sembra richiedere un ricompattamento sociale in ordine a comportamenti sani e solidali. La corsa a chi può dare di più, in un momento così paradossale di distanziamento sociale, è il passaggio di testimone alla cooperazione; l’azione del singolo che può far funzionare il sistema, può tenerlo in piedi, sebbene tanti pezzi cadano, si frantumino e non si abbia il tempo, né la possibilità, di piangerne. Siamo chiamati, in questo tempo di strade abbandonate, di primavera invisibile, di silenzi assordanti e vuoti interiori, a fare i conti con quella 2 ermeneutica della finitudine che è la cifra più umana dell’umanità, ma anche quella più fragile. Quel mondo che viaggia in 5G e non inquadra la lentezza, che non s’accontenta di “avere in tasca solo le proprie mani”, che vive un naturalismo dimentico, che ha costruito grattacieli su un vano senso di immortalità da successo professionale, eretto muri visibili dalla luna e che dividono gli invisibili, ecco, quello stesso mondo, prega all’unisono per la “salus”, che è la salute ma è anche la salvezza. E la preghiera per la salvezza non parte dalle guglie di una chiesa, né da una piazza gremita per l’Angelus, parte dall’intimità delle nostre case. Le nostre camere sono diventate il luogo di culto dell’incertezza, l’eco di una preghiera per rivedere un’alba e poi un tramonto, il termometro dell’essere vivi. Mai come ora però comprendiamo il valore scarnificante e il peso spirituale determinante della preghiera da fare nella propria camera, avendo chiusa la porta: «quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,5).

Ciononostante sembra che oggi siamo pronti a barattare la florida democrazia, il baluardo della Costituzione, la fede stessa per un solo emergente bisogno: respirare. E nessuna tecnologia, nessuna Europa, nessun vaccino, nessun sogno di globalizzazione, può colmare la fame d’aria dell’anima. “Memento homo pulvis es” (Genesi 3,19). Siamo polvere, sottilissimi granelli di nulla, sorretti spesso dall’egoismo, un sorite, come chiamavano il “cumulo” già gli antichi Greci, di aspettative e di priorità inesistenti, canne al vento, come ci ricordano le disposizioni ministeriali che prescrivono un arresto della corsa che genera fatica ma, paradossalmente, anche opportunità. Fermarsi adesso, fermare queste generazioni che si proiettano al futuro con ansia, che vivono il globale con la frenetica eccitazione della scoperta, vuol dire riproiettarle, domani, alla generosità dell’essenziale, alla riscoperta del glocale (globale e locale nello stesso tempo), compiendo lunghissimi viaggi introspettivi. Questa esperienza, così tanto dolorosa, ci ha comunque insegnato a rivivere le nostre più intime relazioni: quelle con i nostri genitori, con i nostri fratelli, con i nostri mariti, con le nostri mogli e con i nostri figli, con i nostri parroci, con i sacramenti, con la messa domenicale. Ci ha dato modo di riscoprire gli affetti veri, di spolverare quelli che avevamo accantonato ma spesso ci ha fatto sentire più soli. Nascere come “molti uomini” vuol dire sempre morire come uno solo.

Come sarà il mondo e cosa ne sarà del mondo, quando tutto questo sarà finito? Saremo riusciti a cicatrizzare gli egoismi, a mettere da parte le invidie, le smanie di potere e di fama? Questa solidarietà che ora ci avviluppa, come fosse la nostra indulgenza, riusciremo a ricomporla anche dopo, quando torneremo a guardarci negli occhi, quando sentiremo ancora di persone su un barcone, quando non saremo più infetti e non lo saranno neanche gli altri? Il virus sarà riuscito a renderci persone non diverse, nuove? Questo ce lo dirà la storia, ce lo dirà la vita! Intanto l’inversione di tendenza può cominciare da una frase, sentita dal Papa Buono, da Giovanni XXIII, in prossimità del suo consapevole transito verso il cielo. Quel transito non lo angosciava, perché era convinto, come lo dobbiamo essere tutti, che dal cielo noi veniamo e che la sua impronta ci ha plasmati, conferendoci una caratura superiore a quella dell’oro: «del Cielo siamo fatti: ci soffermiamo un po’ qui e poi riprendiamo la nostra strada» (Loreto, 4 ottobre 1962).

Io auguro a me stesso e a voi, alla Chiesa intera, che attraverso l’isolamento di questi giorni le nostre giornate grigie s’indorino di Cielo, quello che portiamo nascosto in noi come un tesoro segreto, ma che è tanto reale quanto la vita che pulsa nelle nostre vene. Se abbiamo almeno cominciato a imparare che la nostra vita e quella altrui vanno custodite ad ogni costo, perché portano l’impronta incancellabile del Divino, allora siamo in grado di capire la frase altrimenti enigmatica di San Paolo, che proprio in riferimento al Cristo Risorto, scriveva: « … rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria» (Col. 3,2-4). Nascosti davvero, quest’anno, nelle nostre case, nascosti persino i nostri sentimenti, negli abbracci non dati nemmeno alle persone più care della nostra vita, nascosto persino il pane eucaristico, quello che ci affratella e ci fa riconoscere il Cristo dappertutto intorno a noi. Tutto resta nascosto. Tuttavia è al sicuro; è nascosto in Cristo. Non temiamo, «dappertutto intorno a noi il Risorto è presente e ci guarda dalle fessure delle cose», come ha scritto, parafrasando R. M. Rilke, un mio amico teologo.
È grazie a tale sguardo che possiamo e dobbiamo muoverci con gioia, avvertendo una compagnia nella nostra solitudine. Da qui dobbiamo imparare, nonostante il virus, a mantenere, riadattandole a nuovo stile vita, le cose che veramente contano. Quali son quelle, invece, infruttuose, che è bene cancellare dalle nostre abitudini? Abbiamo compreso che lo smart working si può fare! Lavorare da casa, potrebbe essere una bella consuetudine da mantenere, per riuscire a smaltire il traffico cittadino e permettere a genitori con bambini piccoli, di accompagnarli nell’importantissimo processo della crescita. Lo stesso dicasi per la didattica multimediale ed il buon costume, magari, di riuscire ad alternare periodi di e-learnig a momenti, più ampi, di didattica canonica.

Con la tecnologia si possono fare tutte le cose ma, bisogna stare attenti a non cadere nella tentazione di creare un isolamento sensoriale dal mondo, una inabilità affettiva e relazionale, che priva i ragazzi dalla relazionalità autentica, legata allo scambio degli sguardi, del tatto, dell’ascolto. A una sensualità sensoriale egocentrica e autoappagante di corto respiro, occorre sostituire la capacità di percepire lo strato profondo delle cose, della cultura, dell’anima. Bisogna perciò sempre ripartire dal prezioso che c’è in noi e che rende preziosa ogni persona e perciò anche ogni nostro singolo atto. Da qui il valore delle relazioni, perché in questo senso la vita ha bisogno di essere costantemente contaminata di sensoriale emotività. 6 Dobbiamo imparare che produrre cose è importante, ma che le cose senza le idee sono oggetti che possono fare del bene, ma possono anche provocare danni immensi. Occorre imparare a produrre idee, imparando ad uscire dall’orror vacui castrante e forsennato della produzione, per riacquisire la meraviglia della lentezza.

E poi, ripensare il nostro sistema sanitario. La morte di tantissimi operatori ospedalieri, rende necessaria una ridistribuzione dell’assistenza medica e paramedica sul territorio nazionale. Troppi buchi di programmazione nell’organizzazione di una eccellenza sanitaria come quella italiana. L’elaborazione di un “piano pandemico”, dovrebbe essere uno dei punti principali delle riforme che verranno e non già perché, poi, la pandemia è scoppiata sul serio, ma perché viviamo di e con la globalizzazione. La regionalizzazione della Sanità Pubblica ha prodotto incapacità organizzative, per cui in Lombardia, oggi, si combatte un inferno ed in Calabria si attendono ancora “macchine” che permettano, ai malati in terapia di intensiva, di respirare. Siamo stati cultori dell’autonomia, l’abbiamo gridata e voluta ad ogni costo, con la conseguente risoluzione, che fa sempre capolino nelle strutture mentali egoiche con cui siamo stati plasmati: «ognuno per sé (e Dio? Dio per tutti!) e morti per tutti». Non è stato improntato alla custodia dell’umano, né della diversità quello che è avvenuto nel regime di ospedalizzazione come unica forma terapeutica, che ha trasformato, i nostri ospedali (anche quelli che funzionano), in campi di battaglia. Ora ci accorgiamo, a nostre spese e con il peso di migliaia di morti (migliaia anche solo in Italia), che ciò non può valere per il Corona Virus, che in forme gravi può essere trattato solo nelle terapie intensive. Mantenere la cura del fratello significa superare finalmente le differenziazioni dei piani regionali, la lungaggine della burocrazia, le sanità commissariate, le commistioni mafiose dietro allo stanziamento dei fondi, le assegnazioni monopolistiche al parentame e le preferenze per i privati. La sottovalutazione di tutti questi problemi, ha un’origine profondissima, da ricollegare ad un altro gravissimo errore amministrativo: i tagli alla ricerca. In dieci anni, in Italia, la spesa pubblica per la ricerca è stata tagliata di circa il 21%, con altre percentuali di tagli alle università statali, proprio nei periodi in cui i nostri ricercatori, registravano grandi miglioramenti nella produzione scientifica.

La pandemia è pandemia su ogni fronte anche perché, tutte queste negligenze che il virus ha messo in luce, sono pezzi di un grande puzzle che forma tutta l’unità statale. Oggi però facciamo i conti con un altro problema che non riguarda solo l’Italia ma il sistema Europa. L’Europa deve imparare dalla dolorosa esperienza italiana a gestire un mostro più grande e ad essere, al contempo, solidale a livello sanitario e a livello di bilancio. Non servono ora unità di facciata e deplorevoli reticenze, occorre stare tutti dalla stessa parte, sulla stessa “barca”. Credo, dunque, al netto di queste semplici considerazioni che il sistema Paese, vada riformulato, riqualificato, risanato, reinventato. Bisognerà tornare ad investire su tanti settori con meritocrazia e senza mai dimenticare i più poveri, gli indigenti, quelli che solo Dio non ha dimenticato. È solo un programma politico, di non pertinenza dei vescovi? No, è una ripianificazione motivata almeno dalla grandezza dell’uomo, anche per chi non crede in quella di Dio. È tempo infatti di fermarsi a capire quanto si siano compromesse le nostre esistenze, durante questa epoché, questa epoca sospesa, che può essere riutilizzata e rindirizzata, facendone una pratica di ascolto e apertura recettiva. Al tempo è associata, infatti, l’idea del limite e dell’intervallo, non solo perché è insita nella durata, l’idea di una fine, ma perché si apre all’eterno, a qualcosa fuori dai limiti. E questa esperienza, nuova per tutti, ci ha insegnato, in primo luogo, a ridisegnare il con-fine, quell’unico pezzo di terra che sembra dividere due luoghi geografici ma, se ben ci pensate, è, allo stesso tempo, il solo punto in cui, due luoghi si toccano. Questa è la metafora più vera di questo tempo, rimodulare il senso di confine come luogo tangibile di unione e non di separazione fisica. Ripensare tutti i confini, quelli delimitati dai “barconi”, quelli sui quali abbiamo costruito i muri e che non siamo riusciti a buttar giù a suon di questa solidarietà, che ora è una moneta di scambio, di fronte alla paura. E insieme a questo limite di demarcazione, abbiamo imparato ad apprezzare la lentezza, ad essere contenti di poco, perché abbiamo la vita, ne abbiamo recuperato la bellezza, la profondità del respiro. Perché mai? Perché le cose stesse hanno una preziosità immanente, che niente e nessuno potrà mai oscurare. Si può infangare l’onore di un uomo e persino ucciderlo, ma mai si potrà uccidere la sua dignità, quella umana, che per i credenti riposa e si sorregge sulla gloria del Risorto. Proprio a partire da Lui e dalla dignità di ciascuno, possiamo riscoprire la cura dell’altro anche nell’aiutare chi è in difficoltà, perché non può esistere vergogna nel farsi aiutare e nell’aiutare, fino ad affrontare la morte, in noi stessi e negli altri, riaffidandoci al Cielo. Pur cercando sempre ed in ogni caso di combattere la morte. Nell’aiuto reciproco, che è custodia del divino nell’uomo, diventa meraviglioso, essere uguali all’altro, proprio come sosteneva A. Rimbaud, io è un altro. “Il legame con altri si stringe soltanto come responsabilità, sia che si sappia o no come assumerla, sia che si possa o no fare qualcosa di concreto per altri. Dire ‘eccomi’, fare qualcosa per un altro, donare: essere spirito umano significa questo” (E. Levinas).